sabato 18 dicembre 2010

Verso un neo-rinascimento


Intervista a Ilaria Borletti Buitoni
Verso un neo-rinascimento
Alla base della coscienza civile di una nazione c’è l’amore per l’arte, per la natura, per i valori civili e per la cultura
Elena Ribet
Ilaria Borletti Buitoni è milanese per nascita e cittadina del mondo per vocazione. Da sempre impegnata ai massimi livelli in ambiti imprenditoriali e nel volontariato, ha fatto dell’impegno civile la sua principale aspirazione. Da gennaio 2010 è presidente del FAI, Fondo Ambiente Italiano.

L’Italia sta vivendo una profonda crisi culturale, economica e anche politica. Secondo lei esiste ancora una dimensione pubblica dell’amore, inteso come impegno per un bene comune?
Esiste poco di questo tipo di ‘amore’ se paragoniamo l’Italia a un paese come l’Inghilterra. Ma se guardiamo entro i nostri confini, questo ‘amore’ inizia a farsi di nuovo sentire. Rispetto a dieci anni fa, la percezione che il patrimonio culturale sia un bene comune è più forte. Certamente siamo ancora troppo indietro, basti pensare al fatto che il National Trust può contare su tre milioni e mezzo di soci. Questo ci fornisce un’indicazione sia per quanto riguarda il sentimento delle persone nei confronti delle eredità artistiche che di quelle naturali. Ma ho l’impressione che stiamo migliorando, più fra le persone che nelle istituzioni.

In che modo, secondo lei, proprio le istituzioni insieme alla cittadinanza possono collaborare per una ‘ricostruzione civile’ del nostro paese?
L’unica forma di collaborazione utile è che per la politica diventi un imperativo aggiungere nei suoi programmi la tutela del patrimonio culturale. Ma il fatto di ‘sentirlo’ come qualcosa di giusto e irrinunciabile non può che venire dalla società civile, la quale si esprime in tal senso e si fa portatrice di istanze precise. Credo che si debba ripartire dal sistema scolastico italiano, che è in crisi ormai da vent’anni. L’amore per l’arte e per la natura si insegna a scuola, invece il nostro paese ha prediletto valori molto diversi, chiamiamoli ‘televisivi’, e questo ha messo in secondo piano quei valori civili e di cultura che fanno parte della coscienza civile di una nazione. Questa dicotomia partecipata porterebbe senz’altro ad adottare misure, peraltro già in atto in altri paesi europei, che permetterebbero non solo la cura e la salvaguardia delle bellezze del nostro Paese, ma anche un impegno assunto in prima persona, da ciascuna persona.

Quali sono queste misure?
In primo luogo occorre limitare il consumo di suolo che in Italia è il più alto d’Europa, proteggendo il paesaggio e l’ambiente. In secondo luogo si potrebbero incentivare i soggetti privati, sia proprietari che finanziatori, a sostegno della tutela del patrimonio d’arte, ad esempio attraverso agevolazioni quali la detassazione. Questo avviene normalmente in Inghilterra, dove per la valorizzazione e la gestione dei beni culturali i soggetti privati non solo sono determinanti, ma lavorano con un forte spirito di cooperazione e in sinergia con gli apparati pubblici, i quali hanno, a loro volta, efficaci strumenti normativi di controllo. In terzo luogo, penso che per i cinquanta siti più importanti d’Italia, tra cui Pompei, si dovrebbe realizzare una situazione analoga a quella della Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano oppure del Vaticano, cioè squadre permanenti che monitorizzino lo stato dei beni in questione con una manutenzione competente e costante.

(13 dicembre 2010)

lunedì 6 dicembre 2010

BELLA DENTRO (fuori non ce l'ho fatta)


Teatro
Graffiante, ironica, profetica, Grazia Scuccimarra porta in scena un altro spettacolo di successo
Elena Ribet
L’Italia sarebbe migliore se avessimo Grazia Scuccimarra in prima serata a reti unificate, pubbliche e private, almeno una volta al mese. Invece facciamo la fila in teatro per vederla, sì, proprio la fila, perché lo spettacolo BELLA DENTRO ha registrato il pienone per tutta la programmazione di novembre al Teatro dei Satiri di Roma.
Non ci si annoia mai a sentirla parlare, mentre lei ci spiattella in faccia la realtà, senza elusioni, strappandoci una risata anche nella desolazione in cui viviamo. Senza risparmiare nessuno: uomini e donne, poteri e debolezze, sondando tutte le dimensioni dell’esistenza, dal lavoro alle relazioni, dagli alti ideali alle mediocrità; con la sua satira la Dottoressa Scuccimarra ci fa a pezzi e poi ci ricuce insieme migliori di prima. Altro che chirurgia plastica.
Troppo scomoda per la televisione, dove oltre che bucare lo schermo bucherebbe le ipocrisie del nostro tempo, Grazia Scuccimarra non si nega al suo pubblico e ci regala un’esibizione unica, imperdibile, liberatoria.
Qualche giorno fa le abbiamo chiesto come sta andando, e lei ha risposto “Benissimo, trionfale, meglio degli altri anni! Nonostante la crisi…”.
Si vede che c’è proprio sete di sentire la voce di questa grande artista, autrice e, diciamolo, anche acuta opinionista, che ha saputo leggere e interpretare con largo anticipo i segnali del decadimento (e non parliamo di quello estetico né di quello esteriore).
Che succede alla cultura nel nostro Paese?
“La cultura… è crollata, come la Domus dei gladiatori di Pompei. L’Italia sta così, nello spettacolo come dappertutto. Il problema del berlusconismo non è tanto lui, quanto i danni che ha portato a questa società e i cui effetti sono perduranti, vedi la mentalità diffusa che si è formata.” Certo anche noi abbiamo delle responsabilità, e non basta “staccare la tv e non leggere i libri e le riviste editi dal cavaliere” (cioè quasi tutto quel che c’è in circolazione nelle edicole e nelle librerie).
Responsabili un po’ lo siamo, ma abbiamo avuto davvero la libertà di scegliere e di ascoltare idee e valori diversi? O forse siamo stati totalmente incantati e sedotti da un’ipnosi collettiva?
Come dice Grazia Scuccimarra, “non stiamo ancora vedendo la fine di Berlusconi, non può permettersi di cadere… non lo fanno cadere perché non hanno individuato il sito dove buttare le scorie”. Ciò che sta accadendo dovrebbe indurre la gente a fare un sit-in permanente, in piazza, a rotazione. Anche per anni. Ci andrebbe una protesta forte, una mobilitazione di massa. Chiediamo a Grazia una nota positiva.
“Una speranza per ora non la vedo… magari dietro l’angolo ci sarà un rigurgito di dignità, me lo auguro, altrimenti non c’è niente da fare. Ma la dignità fa parte di quei sentimenti che si sono persi. Forse nei giovani, ecco, spero nella generazione dei ventenni e dei trentenni, insomma in quella generazione che vive nella precarietà globale. Sì, spero proprio in quelli che oggi si chiamano ‘precari’. Poi, occorre che si torni a una politica per la scuola di ogni ordine e grado, per la quale impiegherei la maggior parte delle risorse della finanziaria. Solo la scuola può salvare questa società dalla morte alla quale la stanno condannando.”

(6 dicembre 2010)

giovedì 2 dicembre 2010

Rompere il silenzio sul rapporto donne e politica.



La Società Italiana delle Storiche lancia un appello a tutte le donne e gli uomini di questo paese che avvertono la necessità di un immediato ritorno alla responsabilità della politica, per denunciare la quotidiana offesa alla dignità delle donne e alla loro presenza pubblica. Questa ha rappresentato e rappresenta infatti una delle più significative battaglie del mondo contemporaneo e la condizione perché le donne possano affermare una nuova visione della politica, frutto degli spazi che esse si sono faticosamente conquistate nella vita economica, sociale e culturale.
Giorno dopo giorno, l’immagine che ci viene rinviata dai media è invece essenzialmente quella di giovani donne disposte a tutto pur di calcare, in alternativa ai palcoscenici dei teatri di posa, le aule di consigli e parlamenti; di donne dal bel corpo pronte ad offrirlo ad affaristi e uomini politici di successo pur di garantirsi vantaggi diretti e indiretti: un incarico istituzionale, un ruolo di spicco in una società mista, un finanziamento in bilancio, un comma di legge utile. Il silenzio di ministre della Repubblica che tacciono su tutto questo è assordante.
Siamo ben coscienti che quell’immagine ritrae solo una scheggia della realtà, anche se ha dalla sua la forza di corpi che occupano ossessivamente le pagine dei periodici di successo e gli schermi delle trasmissioni più seguite. Ma è una raffigurazione che non rende giustizia alle migliaia di donne che si dedicano alla politica con passione e autorevolezza.
Denunciamo quindi il degrado dei metodi della politica, in particolare dei meccanismi di selezione della classe dirigente. Tuttavia non ci nascondiamo che nel costruire e alimentare questo stato di cose molte donne sono soggetti attivi e propulsivi, partecipi della stessa cultura di cui quel degrado è frutto ed espressione e dunque complici della costruzione di stereotipi pronti a ritorcersi contro tutte le donne che credono nella politica come luogo di progettazione e mutamento reale.

mercoledì 1 dicembre 2010

sesso e potere


Chi si ricorda più dello scambio sesso e potere?
di Lea Melandri
La“mercificazione del corpo femminile”, altra evidenza rimasta a lungo invisibile. Perché se ne parla solo ora? Ma, soprattutto, il modo con cui se ne parla ci aiuta effettivamente a portare fuori dal silenzio in cui è stata confinata la “naturalizzazione” del dominio maschile sulla vita intera della donna? La sua messa a tema dipende sicuramente da quanto detto sopra –doti estetiche, prestazioni sessuali compensate con denaro o cariche istituzionali-, ma anche dal fatto che, per quanto volutamente ignorata, esiste una cultura femminista che ne ha scritto e parlato a lungo. A ciò va aggiunto un cambiamento che riguarda invece la generalità delle donne e che può essere letto sotto il profilo di una, sia pur discutibile e contraddittoria, “emancipazione”: attributi tradizionali del femminile, come la seduzione e il materno, che escono dagli ambiti ristretti della casa e dei legami intimi per proporsi nello spazio pubblico nelle modalità richieste oggi dal mercato capitalistico. Le donne si fanno “soggetto”, prendono parola per denunciare le logiche di potere dentro le quali si sono collocate, ma non si sottraggono a nuove forme di “oggettivazione”. L’assunzione di un ruolo attivo nel decidere della propria vita impedisce di considerarle delle “vittime”, ma d’altro canto non può essere considerata “libertà” la scelta di vendere il proprio corpo o di mettere a profitto erotismo, sentimenti, affetti.

Il femminismo ragiona da anni sul rapporto sessualità e politica, su pratiche di liberazione e processi emancipatori legati agli sviluppi dell’economia e delle leggi, su autonomia e subalternità nella visione del mondo, ma inspiegabilmente è stato ignorato proprio quando avrebbe potuto dare un contributo essenziale di analisi. E la messa sotto silenzio purtroppo è stata anche l’effetto dell’eccessiva rilevanza che in alcuni casi le femministe stesse hanno dato alle “nuove figure femminili”, elogiate come espressione di “autorevolezza e libertà” per aver messo a nudo l’arroganza del potere. E’ come se tra il discorso dei media sulle donne, “sequestrato dall’immaginario berlusconiano” (Ida Dominijanni) e le donne reali “che non sono né veline né escort” non ci fosse che un vuoto, l’assenza di una storia che è venuta da decenni modificando la coscienza che le donne hanno di sé, spostando rapporti di potere e ripensando l’idea stessa di libertà, come ricerca di autonomia da modelli interiorizzati. E’da questo patrimonio di idee e di cambiamenti profondi del sapere di sé e del mondo che poteva venire un gesto di ribellione meno complice delle stesse logiche di sfruttamento che denuncia, una parola capace di riconoscere l’ambiguità di figure femminili tentate dall’illusione di capovolgere la schiavitù in dominio, la mancanza in risorsa. Solo la cultura prodotta dal movimento delle donne, in un paese dove il rapporto tra i sessi non è mai entrato tra le questioni essenziali della politica, poteva svincolare lo scambio sesso e denaro dall’eccezionalità di un potere personalizzato, assillato da un sogno di onnipotenza e da una patologica ossessione dell’ “eterno femminino”.

La denuncia che le donne fanno dell’uso che il potere fa dei loro corpi, dice Gad Lerner intervistato da “Leggendaria”, ha “effetti destabilizzanti”. Ma di quale potere stiamo parlando? Di quello che gode oggi in Italia del maggiore consenso politico, o di quello diffuso, trasversale a tutte le classi sociali, che considera il corpo femminile una proprietà “naturale”? Non sta forse in questo tratto comune del “potere virile” tradizionalmente inteso una delle ragioni che, al di là degli interessi e dei bisogni di singoli e classi, ha permesso finora al governo di Berlusconi di passare indenne da un terremoto all’altro?

Un altro pianeta da cui ricominciare.



Ridotto a una caricatura di se stesso, il potere maschile affonda nel fango ma non cede, perché una sotterranea e inconfessata alleanza di genere lo sostiene. A cosa attribuire altrimenti le invereconde recite che vediamo rappresentate sulla scena pubblica italiana? Cosa si giocano tra loro questi maschi che scivolano non sulle loro politiche razziste, autoritarie e classiste, ma su corpi di donne usati e violati? Riemerge con forza il vero punto di rottura continuamente negato, l’impari rapporto tra i sessi.

Vediamo corpi di donne mercificati al centro della scena mediatica e della pruderie nazionale, mentre nei fatti si continua a ostacolare “le” donne nel diritto e nella capacità di contare, puntando sull’invisibilità di tutte quelle che non stanno in vetrina, e anche sul disgusto che le tiene lontane dall’idea di competere per avere potere in questi termini e in questo contesto.

Che cosa occorre per raggiungere a ogni livello di responsabilità una significativa presenza di soggetti femminili, e di punti di vista femminili in grado di influire davvero sul farsi della società?

Dati i tempi, queste sembrano domande che riguardano un altro pianeta. E almeno ci fosse, un altro pianeta da cui ricominciare, come nei fantastici libri di Ursula Le Guin! Invece, già sta sbiadendo persino in alcune aree femministe l’idea che questa lotta sia ancora da fare. In fondo, ragionano alcune, è una questione che sta alle nostre spalle, la divisione di genere fra donne e uomini rischia di essere una riduttiva dicotomia, una stereotipata polarizzazione, una rigida categorizzazione quasi essenzialista.

Certo, le nette divisioni di campo corrono questi rischi, ed è vero che sta emergendo un altro profilo del concetto di genere, un profilo nomade, fluido, in mutamento, non più precisamente definibile… ma la storia ci dice che ogni lotta ha dovuto inevitabilmente attraversare una fase “identitaria” per definirsi e definire i propri obiettivi: “il punto di vista dell’altro collettivo e concreto”, come dice Nancy Fraser (i neri, le donne…), che partendo dalla parzialità offre una nuova visione dell’insieme.

A obiettivi raggiunti, si può ipotizzare che la dicotomia si sciolga e sia possibile uscire dalla soffocante gabbia “rivendicativa” per vivere nuove, trasversali relazioni e lavorare sui nodi sensibili della dinamica sociale, mettendo in campo la potenza creativa di tutte le soggettività finalmente liberate.

Ma gli obiettivi sono stati raggiunti? O perlomeno se ne vede vicina la realizzazione? Mi piacerebbe tanto condividere l’ottimismo di alcune, però quando guardo alla situazione generale in cui ci troviamo, sento brividi corrermi per la schiena.
Non per il silenzio “delle” donne – che inascoltate continuano a parlare nel deserto - ma per il silenzio “sulle” donne e su ciò per cui hanno lottato e lottano. Qualcuna dirà che però sono aumentate le donne a capo di alcuni vertici, e che comunque le donne sono ormai dappertutto, e che bisogna avere pazienza, perché la trasformazione è ormai avviata…

Sbaglierò io, ma a me sembra che abbia ripreso forza – questo sì, a ogni livello – una cupa rappresentanza maschile neopatriarcale – questa sì, essenzialista – che si dibatte in una rovinosa ma eterna agonia. Luoghi privati e pubblici guidati da un grigio “clero” uniforme, pur se su sponde apparentemente opposte (quante volte li vediamo riuniti in tv e sui giornali, le immagini parlano), secondo un modello ereditato appunto da quelle religioni che all’origine della storia hanno decretato l’espulsione delle donne dallo spazio sacro e profano.

Penso che abbiamo ancora molto lavoro da fare per conquistarci un altro pianeta dove il femminile abbia piena cittadinanza, e gli uomini siano riusciti a vincere la volontà di dominio e le pulsioni distruttive che li portano a usare violenza contro le donne. Eterna guerra sempre rinnovata, perché il numero dei femminicidi su questo pianeta non si ferma, e addirittura aumenta.

Se provo a chiedermi cosa occorra per modificare profondamente lo stato delle cose, m’immagino allora una grande, travolgente onda d’urto simile al disgelo dei ghiacciai in primavera. Nei fatti, una forte ripresa del movimento e del pensiero femminista di base, rielaborato e aggiornato, com’è giusto che sia, grazie ad alcune nuove intuizioni delle giovani generazioni. E, se possibile, in confronto dialettico con quei rari gruppi di uomini che da anni, sollecitati proprio dal femminismo, s’interrogano su un possibile altro modo di essere maschi, perché se loro non cambiano difficilmente cambieranno le cose.
di Floriana Lipparini
Maria Grazia Setzi

lunedì 22 novembre 2010

Il futuro possibile..facciamo posto all'eccellenza femminile.


Il futuro possibile
Facciamo posto a un riconoscimento fattuale dell’eccellenza femminile
Catia Iori
Stiamo vivendo tempi di assoluta incertezza in cui i cambiamenti sono inevitabili ma meno certi sono i percorsi di uscita.
Condivido l’analisi di Giancarla Codrignani che afferma strisciare sotto di noi la consapevolezza tutta positiva di molti diritti che si sono affermati almeno giuridicamente, di tanta ricerca scientifica, della ricchezza della comunicazione e delle nuove tecnologie.
Epperò con altrettanta sensibilità percepiamo quanta violenza, palese e sotterranea che si annida sotto le nostre vite, una persistente e ammorbante ostilità che inquina la convivenza civile e socialmente l’intera democrazia.
Se il linguaggio politico si esprime ormai solo nella rissa volgare, i rapporti familiari ammettono offese, percosse, stupri, pedofilia, uccisioni.
Sembra arrivata la fine di un’era in cui le donne debbono se lo vogliono davvero superare il vecchio mito dell’uguaglianza e riprender in mano le sorti del pianeta, e del paese e della propria casa.
Basta parlare di parità e facciamo posto a un riconoscimento fattuale dell’eccellenza femminile. Dico eccellenza e non arrogante superiorità che sennò si ricomincia da capo. Penso soprattutto al rapporto col potere e col denaro che sono i suoi mezzi principali.
Gran parte di noi donne non li mette davanti agli affetti e all’amore.
Anche qui non mi pronuncio sulla natura di questa eccellenza, mi limito a constatarla. E credo che un poco debba finire quel clima di vittimismo quasi di alibi per cui alle donne tocca l’umiliazione dell’ingiustizia: beninteso può esser vero ma non se ne esce più. C’è un bisogno identitario maschile di superiorità, non più confessabile ma tenace. C’è per le donne la rendita del vittimismo. C’è una politica paternalistica che non cambia mai. In questo pantano mi incoraggia sapere che il prossimo premio Nobel si propone per le donne africane. Nobel Peace Prize for African Women è il nome della campagna. Ebbene in questa singolare proposta si affaccia una verità vicina ad essere detta, quella di un’eccellenza femminile che ha contribuito fin qui a difendere la vita sulla Terra e della Terra. Che si tratti dell’Africa nera è ancor più significativo perché qui - dice Luisa Muraro - si sono trovati i primi resti della prima donna, Lucy, da cui discenderebbe l’intera umanità.

(22 novembre 2010)

lunedì 8 novembre 2010

Donna? Il lavoro non c’è!


Donna? Il lavoro non c’è!
di Paola Calorenne
In Italia sono circa 7 milioni le donne escluse dal mercato del lavoro.
Secondo l’ultima rilevazione ISTAT (agosto 2010) il tasso di inattività femminile ha raggiunto il 49,2% (0,2% in più rispetto a luglio e 0,4% in più rispetto ad agosto 2009).
Quasi una donna su due, tra i 15 e i 64 anni, non ha un lavoro o ha smesso di cercarlo; la ricerca evidenzia inoltre che i numeri più allarmanti quelli sono relativi al Meridione.
L’ISTAT in una nota commenta i dati rilevati, affermando che il fenomeno principale è il deterioramento del mercato del lavoro.
Rispetto agli obiettivi di Lisbona del 2000 l’Italia è indietro, la percentuale di occupazione femminile è del 46,3%, lontana dal 60% che si sarebbe dovuto raggiungere al termine del 2010.
Da questi dati emerge una disparità di trattamento tra uomini e donne nell’accesso al mercato del lavoro. Ma quanto ci costa la mancata parità?
Il Professor Maurizio Ferrera, professore ordinario di Scienza Politica presso l’Università degli Studi di Milano, esperto di welfare e autore di “Il fattore D – Perché il lavoro delle donne farà crescere l’Italia” spiega che 100 donne occupate in più, non solo non rubano spazio agli uomini ma creano un indotto valutabile in un incremento dei posti di lavoro pari al 15%, facendo lievitare così l’occupazione e conseguentemente i consumi, questo perché le donne, per lavorare, hanno bisogno di maggiori servizi, in particolare di quelli dedicati a infanzia e anziani.
Investire sul lavoro femminile significa maggiore ricchezza: per ogni 100.000 donne lavoratrici si ha una variazione positiva del prodotto interno lordo pari allo 0,28%.
I dati di oggi non sono incoraggianti. In Italia sette milioni di donne sono fuori dal mercato del lavoro, ma anche le lavoratrici purtroppo vivono sotto un “tetto di cristallo” che non consente loro di fare carriera.
Questi numeri non sono solo lo specchio di una mancata parità di genere ma anche di un’assenza di lungimiranza poiché, in un tempo caratterizzato dalla crisi economica, l’emancipazione femminile nel mondo del lavoro garantirebbe produttività e crescita.
Uno strumento utile al raggiungimento di questo scopo potrebbe essere quello di prevedere misure di finanziamento per incentivare le aziende ad assumere donne.
In tal senso si è mosso concretamente il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali che ha varato, lo scorso 9 giugno, il “Programma Obiettivo 2010”.
Il progetto ha come fine ultimo l’incremento e la qualificazione dell’occupazione femminile, il superamento delle disparità salariali e di quelle relative ai percorsi di carriera, la creazione, lo sviluppo e il consolidamento di imprese femminili e la creazione di progetti integrati di rete.
I soggetti finanziabili sono i datori di lavoro pubblici e privati, le cooperative e i loro consorzi, i centri di formazione professionale accreditati, le organizzazioni sindacali nazionali e territoriali, le associazioni. I progetti dovranno essere presentati entro il 30 novembre 2010.

lunedì 25 ottobre 2010

Riallacciare i fili dell’emancipazione femminile .


Il vivere delle giovani come flusso
Aiutare le nostre amiche a riallaciare i fili dell’emancipazione femminile in termini corretti
Catia Iori
Ho trascorso le mie vacanze con alcune giovani ragazze che si stanno accingendo ad entrare nel mondo del lavoro. Fresche di studi e di entusiasmi ammirevoli, cominciano così il loro lento avvicinamento alle selezioni aziendali. E tuttavia mi sono resa conto di come quella razionalità di fondo che guidava le scelte di noi quarantenni sia totalmente sfumata per lasciare il posto all’emozione vissuta con forte coinvolgimento psichico. La felicità per le nostre sorelle più giovani è possibile e da ricercare con ogni sforzo (e questo mi pare buono), il dolore è un’esperienza essenziale, fare famiglia è quel che serve per condividere la vita con un’altra persona, la generosità è dono, la vita è avventura o viaggio; la cultura è ricerca di senso, le paure, se ci sono ineriscono alla propria personale dimensione (se si è malate, se si è orfane, se ci si sente sole) e non alla guerra, alla criminalità o a una dimensione più collettiva. Tutta la tensione è rivolta a se stesse e alle propri emozioni: non a caso si leggono libri di psicologia a go go. Questa prigionia in se stesse si accompagna con una parallela prigionia nel presente. Il tempo è il tempo di oggi, da consumare o da valorizzare: non si dà peso alcuno alla memoria del passato e alla speranza del futuro; non si crede molto in una vita ultraterrena, non ci sono libri o donne del passato che possano dare senso ad individualità future sia individuali che collettive. Ecco ciò che spaventa di più di queste giovani trentenni è proprio questo: vivono in un flusso costante che rassomiglia molto al flusso televisivo di cui sono spettatrici e figlie, e in cui ogni evento o fiction o talk show è vissuto e concentrato in se stesso, senza ricordo di cosa si è visto prima e senza idea di cosa si vedrà dopo. Come si può reagire a questa doppia prigionia e al conseguente destino di galleggiare in un flusso emotivo, indistinto e senza tempo? E come aiutare le nostre amiche a riallaciare i fili dell’emancipazione femminile in termini corretti?
Il primo impulso è quello di coinvolgerle nella scuola, nelle battaglie civili perché possano uscire dalla propria autocentratura condividendo i loro problemi con le generazioni precedenti, valorizzando adeguatamente la memoria di donne che pensano, studiano, lottano per rendere migliore la storia di noi tutte. Recuperando il senso del tempo e della storia. In seconda battuta penserei che forse è quasi impossibile combattere il flusso entrando nel flusso e che sarebbe importante radicarsi in qualcosa: sul territorio ad esempio con la rivitalizzazione delle realtà locali o con proposte di figure nazionali che possano trascinarle a una maturità di donne con maggiore senso e identità.


(25 ottobre 2010)

mercoledì 20 ottobre 2010

Parità è Qualità


I piccoli grandi 'segreti' di aziende che investono sulle donne
Elena Ribet
“Più donne in posizioni chiave per favorire la crescita economica e uscire dalla crisi”. Lo afferma la Commissione europea nell’ambito della strategia ‘Europa 2020’. Ma non bastano gli studi economici sul PIL, secondo i quali l’aumento dell’occupazione femminile produrrebbe maggiore ricchezza per tutti. Né è sufficiente la prova provata che una maggioranza femminile nei Consigli d’Amministrazione riduca il rischio di insolvenza. Bisogna capire come si fa. E spiegare alla gente, oltre che alle aziende, perché investire sulla risorsa ‘donna’. Visto che, di fatto, una donna su cinque si trova ‘costretta’ ad abbandonare il lavoro dopo la maternità…
Ma quali sono le competenze che possiamo mettere a disposizione? Sicuramente, responsabilità e concretezza, determinazione nel raggiungimento degli obiettivi, capacità di gestione delle relazioni interne ed esterne e di lavoro in gruppo. E poi la famosa ‘predisposizione’ (indotta dai condizionamenti sociali e familiari?) a gestire più problemi contemporaneamente. Quest’ultima, fra le più preziose e utili caratteristiche manageriali, e non solo.
Ma come si cambia la cultura organizzativa? In Piemonte c’è chi lo sta facendo. “L’esigenza di conoscere e valorizzare le esperienze aziendali private che hanno investito significativamente al femminile nasce dal lavoro di analisi e sistematizzazione dei dati del Rapporto biennale uomo-donna delle Imprese con oltre 100 dipendenti in Piemonte, condotto dall’Osservatorio Regionale Mercato del Lavoro e dall’Ufficio delle Consigliere di Parità con il sostegno della dr.ssa Elena Crotta e dell’esperta di parità Paola Merlino. Sulla scorta del Rapporto le Consigliere di Parità, avv. Alida Vitale e avv. Franca Turco, con la disponibilità delle Parti Sociali, hanno voluto avviare il progetto ‘Aziende che investono sulle donne’: una ricerca ‘sul campo’ […] per valorizzare una nuova ‘cultura d’impresa’”. Così nasce ‘é-quality, viaggio nelle imprese dove la Parità è Qualità’, opuscolo realizzato da Kami Comunicazione.
Ci sono aziende che riescono a fare della conciliazione tra tempi di lavoro e tempi di vita non più un miraggio, ma una realtà. Una realtà accessibile a uomini e donne.
Scopriamo insieme i loro piccoli grandi ‘segreti’.
Innanzi tutto, flessibilità. Tempi e luoghi di lavoro si possono trasformare per venire incontro a tutte le esigenze. Dal telelavoro alla gestione elastica dell’orario, dal part-time al job sharing, dai permessi per visite pediatriche ai trasporti aziendali gratuiti per il personale…
Poi, occorre una nuova cultura aziendale. Ad esempio, sono molte le realtà d’impresa che offrono direttamente o in convenzione esterna servizi di cura per figli e anziani o servizi per la gestione del tempo, fornendo supporto alle pratiche burocratiche per la casa, pratiche amministrative o bancarie, servizi di pulizia.
Aziende che guardano al futuro hanno anche adeguato il sistema retributivo, aiutando le famiglie sotto forma di benefit in particolari momenti. Di contro, possono in certi casi ricevere agevolazioni fiscali.
Ma per cambiare davvero, bisogna avere ben chiari tre elementi.
In primo luogo, si deve scardinare la ‘cultura della presenza’; come è spiegato nell’opuscolo, “Più tempo in azienda per le persone non è sempre sinonimo di produttività e di buona organizzazione del lavoro. La miglior resa si calcola, infatti, su tempi inferiori alle 8 ore lavorative e si ottiene ottimizzando il rapporto ore lavorate/risultato”.
In secondo luogo, occorre sottolineare che la maternità non è e non deve rappresentare un ‘problema’, perché è gestibile attraverso l’organizzazione aziendale: “Gestire il lavoro in team favorisce i processi di condivisione e di delega, rende meno traumatica l’assenza di una persona e più facile il suo reingresso al lavoro. L’assenza per maternità è pianificabile e risolvibile. Se ogni postazione di lavoro è presidiata, ad esempio, da un titolare e da un supplente, a tutti i livelli ognuno ha a fianco chi sa fare il suo lavoro e può eventualmente sostituirlo o supportarlo”.
In terzo e ultimo luogo, bisogna dire che la flessibilità non solo produce effetti sull’immagine aziendale, ma contribuisce anche a potenziarne la produttività e l’efficienza. Come? Con la riduzione dei costi aziendali, la diminuzione dell’assenteismo, l’abbattimento del turnover: “Con la conciliazione migliorano anche le performances finanziarie: i tassi di crescita delle aziende e il gradimento degli azionisti sono più consistenti per le aziende virtuose”.



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Il femminile della New-Economy.


Firenze, forum mondiale imprenditrici
“Al congresso verranno portate sia le motivazioni sia le difficoltà che le imprenditrici di tutto il mondo incontrano nel gestire la loro attività. Sarà occasione di confronto con il mondo dell’economia, della produzione e del commercio, con i decisori delle politiche, ed anche una occasione per incontrare donne che ricoprono importanti ruoli decisionali”. Laura Frati Gucci è Presidente nazionale di AIDDA (Associazione Imprenditrici e Donne Dirigenti d’Azienda fondata a Torino nel 1960 e che oggi, con 1500 socie, rappresenta oltre 5.000 imprese) e organizzatrice dell’evento. L’appuntamento di Firenze non è una vetrina perché, precisa Gucci, “seminari, conferenze, incontri individuali di impresa, attività sociali saranno utili a stabilire relazioni collaborative e partership in tutto il mondo”.
Il programma delle giornate è finalizzato al trasferimento di conoscenze e competenze sia in termini di business che in termini di rete di imprese. “Donne leader di diversi paesi del mondo parteciperanno alle faculty per valorizzare le loro esperienze e competenze, stimoli e spunti da utilizzare nella ricerca di un modello di impresa che meglio si adatti alle nuove regole dei mercati - prosegue Gucci - . Abbiamo previsto visite in aziende di eccellenza del made in Italy per analizzare come queste siano sempre più flessibili, dinamiche, creative e attente alla formazione di tutto il capitale umano, all’ecosostenibilità e alla responsabilità sociale”. Dal ricco programma segnaliamo in particolare due iniziative.
La mattina del 22 ottobre la tavola rotonda “Leadership Femminile”, illustrerà come le imprenditrici la vivono nel mondo, anche attraverso il confronto delle esperienze di donne che rivestono importanti ruoli a livello internazionale nei differenti settori (istituzionale, dell’investimento, del management banking, della politica dell’imprenditoria, della moda e dell’arte). Nel pomeriggio “How women face the New Economy and Ecology” cercherà di delineare le linee guida delle imprenditrici e delle donne impegnate nella politica per garantire nuove opportunità di crescita economica, riflettendo su come la New Economy possa essere pianificata in relazione alla New Ecology e in merito a come creare business commerciali in grado di aiutare le future generazioni di donne leader.
“Le partecipanti - affermano le organizzatrici - potranno delineare l’architettura di una nuova economia, che opera nel rispetto delle diverse religioni e prospettive del mondo, vivendo un’esperienza di vero cambiamento”. (Informazioni FCEM: fcemflorence@gmail.com)
PROGRAMMA
FCEM (Les Femmes Chefs d’Entreprises Mondiales) ONG
La sua missione è quella di creare consapevolezza e rafforzare la visibilità delle donne titolari di imprese. Promuove la solidarietà, l’amicizia, la comprensione culturale e lo scambio di esperienze e idee, la crescita professionale delle donne e il perfezionamento delle competenze nel business e incoraggia le donne a creare impresa. Opera per facilitare lo sviluppo di partnership, business e del commercio.
Ha status consultivo presso le Nazioni Unite, il Consiglio d’Europa e quello di rappresentanza presso Unione Europea e presso l’International Labor Organization.
La rete di socie e amiche FCEM include le associazioni nazionali di 84 paesi di tutto il mondo.
Firenze, forum mondiale imprenditrici
Dal 19 al 23 ottobre “New ECO” e 58° congresso mondiale FECM: donne, imprese, ambiente, ecologia
Rosa M. Amorevole

(18 ottobre 2010)

lunedì 18 ottobre 2010

Più potere alle donne contro la fame nel mondo



Secondo recenti rapporti dell’Onu, il numero totale degli affamati nel mondo è sceso per la prima volta in 15 anni. È un fatto incoraggiante, ma non può essere motivo di festeggiamento. Nella Giornata Mondiale per l’Alimentazione, quasi un miliardo di persone continua a soffrire la fame e non ha accesso a risorse alimentari adeguate. Viviamo in un mondo dove si produce abbastanza cibo per tutti. Ma ogni 5 secondi un bambino muore, direttamente o indirettamente, a causa della fame. In Africa, 239 milioni di persone sono vittime della fame. A questi numeri sconcertanti, si aggiunge quello di oltre 2 miliardi di persone sul pianeta che soffrono della cosiddetta “fame nascosta”, o carenza di micronutrienti - evidente nei bambini che non raggiungono uno sviluppo normale e che va scapito delle loro capacità fisiche e intellettive.
Purtroppo i problemi non finiscono qui. Il mancato accesso alle risorse idriche, il crescente impatto dei cambiamenti climatici, la crisi dei mercati locali e nazionali, le infrastrutture inadeguate, le politiche nazionali fragili, unitamente alla mancanza di responsabilità politica e di interventi da parte della comunità internazionale, acuiscono la crisi alimentare su scala mondiale.
Non si può cancellare la fame dalla faccia della terra in un’unica mossa. Tuttavia, come ha sottolineato Oxfam in un rapporto pubblicato in occasione del vertice di New York sugli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, sappiamo cosa funziona e cosa deve essere ancora fatto per affrontare questo problema. Sono di vitale importanza le politiche e i programmi che incrementano gli investimenti dei paesi poveri in settori chiave come l’agricoltura. E altrettanto importante è un impegno, sia da parte dei paesi ricchi che di quelli poveri, per aumentare di 75 miliardi di dollari l’anno gli investimenti da destinare allo sviluppo rurale, alla sicurezza alimentare, alla protezione sociale, all’assistenza alimentare e ai programmi di nutrizione.
Allo stesso modo, garantire la sicurezza alimentare richiede maggiori sforzi perché sia conferito più potere alle donne. Nell’Africa subsahariana e in altre regioni, le principali responsabili della produzione del cibo e dell’approvvigionamento dell’acqua e del combustibile per cucinare sono le donne. Spesso però sono anche i soggetti più deboli e i loro diritti sono il più delle volte negati, con conseguenze negative sui livelli di nutrizione, per non parlare della qualità complessiva delle condizioni di vita.
La domanda che dobbiamo porci ora è: faremo il necessario per combattere la fame? L’Italia ha un ruolo fondamentale nella riduzione dell’insicurezza alimentare, in qualità di paese membro del G8 e del G20 e dei suoi forti legami con i paesi del Sud del mondo. Inoltre, Roma è la sede delle tre principali agenzie delle Nazioni Unite per l’alimentazione. L’Italia vanta una società civile attiva che svolge un ruolo importante nel sollecitare il governo affinché renda conto del proprio operato. L’opinione pubblica italiana ha dimostrato di essere a favore della distribuzione di aiuti ben gestiti ai paesi poveri: un recente sondaggio ha reso noto che il 70% degli italiani vuole che il governo rispetti le promesse sugli aiuti. Ma non sempre le richieste dell’opinione pubblica italiana hanno ricevuto risposta da parte dei leader politici.
Basta prendere come esempio l’Iniziativa sulla sicurezza alimentare de L’Aquila, promossa in occasione del G8 del 2009. L’impegno preso dai paesi più ricchi per affrontare la crisi alimentare e contrastare la fame è stato un segnale incoraggiante di volontà politica. Tuttavia, a un anno di distanza a quell’impegno non è ancora corrisposta un’azione decisa da parte del governo italiano e delle altre nazioni del G8. Manca ancora una risposta coerente e coordinata a livello globale. L’iniziativa de L’Aquila ha portato all’elaborazione dei Princìpi di Roma per una sicurezza alimentare mondiale sostenibile, concordati lo scorso mese di novembre per promuovere una leadership nazionale, un coordinamento e finanziamenti prevedibili.
Ad ogni modo, questi Princìpi risultano di difficile attuazione e i donatori sembrano ancora rifiutarsi di abbandonare l’approccio ormai obsoleto basato sui progetti. Sappiamo che possiamo fare progressi con strategie adeguate. Alcuni paesi hanno raggiunto risultati significativi nella riduzione della fame combinando politiche efficaci e investimenti. Come sottolineato da Oxfam, i paesi poveri devono adottare politiche e programmi che facciano aumentare i loro investimenti pubblici in settori chiave, inclusa l’agricoltura.
I governi devono assolvere l’obbligo legale di garantire ai loro cittadini il diritto al cibo e alla sussistenza sostenibile. Ma non possono farlo da soli. I donatori devono farsi avanti e fornire un sostegno ai paesi poveri, che permetta il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio entro il 2015.L'Unità art.di Mary Robinson
18 ottobre 2010

martedì 28 settembre 2010

“Bisogna essere una donna anti-patriarcale per poter cambiare le cose.


Genevieve Vaughan
Ricercatrice americana trapiantata in Italia e teorica di un sistema economico basato sullo scambio privo di interesse personale
Silvia Vaccaro
La crisi del sistema capitalista e l’andamento disastroso delle economie di alcuni paesi occidentali nell’ultimo anno hanno aperto un dibattito: oggetto della discussione l’infallibilità del neoliberismo e la possibile apertura a nuove forme di economia. Durante una conferenza sul matriarcato, ho incontrato Genevieve Vaughan, ricercatrice americana trapiantata in Italia, che ha elaborato la “teoria del dono”, un sistema economico basato sullo scambio ma privo di interesse personale. “Penso che si debba e si possa ripartire dal dono soprattutto in un momento di crisi come questo – ha spiegato Genevieve – e dal dare per soddisfare i bisogni dell’altro, non per ottenere un profitto, proprio come fanno le madri coi figli o nelle comunità indigene sparse per il pianeta: solo così può crescere un’umanità migliore e più attenta.” Le ho chiesto come si colloca il femminismo in questo senso. “Credo che il femminismo di per sé è una sorta di dono, perché le donne hanno tentato di restituire alle loro compagne quello che la società patriarcale ha tolto loro nei secoli. Inoltre le donne assolvono ancora oggi una funzione di ‘donans’ nei confronti della società in generale: questa nostra predisposizione al dono e il suo riconoscimento sono vitali per l’umanità intera.”
Le ho chiesto se la presenza di un maggior numero di donne nei governi possa facilitare l’affermarsi dell’economia del dono e lei, sorridendo, ha dichiarato che le donne che hanno un atteggiamento patriarcale e sfruttano il sistema vigente invece che rovesciarlo, non favoriscono di certo un’economia alternativa. “Bisogna essere una donna anti-patriarcale per poter cambiare le cose. Nel subconscio tutte abbiamo la vocazione al dono, ma alcune di noi credono ancora nell’economia capitalista, nonostante tutti i giorni abbiamo le prove che questo sistema genera ingiustizie e disastri. È solo uno specchietto per le allodole: le donne attratte dal capitalismo, che ne vogliono fare parte, non sanno valutarne la portata negativa. Credo dunque che bisognerebbe creare un’economia completamente diversa, non di mercato, ma un’economia del dono generalizzato. Alcuni esempi sono i software gratis che si trovano su internet, o wikipedia, o la condivisione delle informazioni tramite mailing list. È difficile pensare ad un sistema economico alternativo ma spero che, anche grazie alla rete, sarà sempre più semplice condividere e donare agli altri.”
Il dono in parte viene messo in pratica anche nelle nostre società capitaliste, ma l’azione del “donare” non è riconosciuta come un valore. Ancora meno viene riconosciuta l’importanza del ruolo materno e di educazione al dono, portato avanti dalle donne. “L’umanità non vuole riconoscere che tutti crescono in una economia del dono, perché i bambini piccoli ricevono senza dare, non potendo scambiare alla pari con gli adulti. In passato, nelle cosiddette civiltà primitive, esisteva una continuità tra l’infanzia e il mondo degli adulti e venivano mantenute alcune pratiche come quella del dono. Nelle nostre società occidentali invece l’apporto delle madri e dei piccoli non è preso in considerazione come dovrebbe. Io credo che i bambini spesso possano insegnare a noi come comportarci, pensiamo ad esempio a come trattano la natura, noi dovremmo imparare da loro, noi che l’abbiamo devastata!”
Nelle società indigene, tuttora, le economie sono costruite sulle pratiche del dono, mentre le economie occidentali sono costruite solo sullo scambio, sull’interesse personale, sulle sopraffazioni. Secondo Vaughan “capitalismo e patriarcato combaciano: i valori dell’uno sono molto simili a quelli dell’altro. Nonostante alcuni difensori del neoliberismo affermino che il mercato offre la possibilità di vivere in una società più giusta e più equa di quella patriarcale, questa è una bugia: l’ineguaglianza è solo spostata su un piano diverso, un piano materiale.” La lucidità delle riflessioni di Genevieve mi porta ad affermare che una lotta seria contro il patriarcato dovrebbe partire, o quantomeno considerare, una revisione dell’economia vigente dalle sue fondamenta.

(27 settembre 2010)

venerdì 24 settembre 2010

il coraggio delle donne,,,.. Teresa Buonocore


Comunicato per Teresa. Uccisa il 20 settembre del 2010 Martedì 21 Settembre 2010 14:07 UDI Napoli
Teresa Buonocore è morta, uccisa da sconosciuti, dai soliti sconosciuti.
Abbracciare e solidarizzare coi figli, o aver plaudito al coraggio di Teresa nel proteggere la sua bambina per proteggerne altre, è ed è stato doveroso, ma comunque la cosa più comoda che si possa fare.

Si deve dire di più quando una donna muore essendo l'ultima vittima del coraggio di lasciare, denunciare, ribellarsi.
Teresa Buonocore è l'ultima donna vittima di una lunga teoria di uccisioni, nella quale la straordinaria coincidenza tra un evidente fare camorristico dei carnefici, il mutismo dei testimoni occasionali e l'autodifesa in solitudine delinea la qualità del patto sociale.
Come in molta parte della difesa dei diritti delle cittadine, sul femminicidio lo Stato Italiano è flebilmente presente, e lo è per lo più solo dal punto di vista comunicativo. Si tratta di una comunicazione alla quale si sono piegati anche alcuni media, sottolineando sempre ed ossessivamente "la necessità del coraggio da parte delle vittime".
Teresa ha avuto coraggio. Di più ha elargito dignità, pagando nei tribunali e fuori, fino ad essere soppressa.

Noi dobbiamo avere fiducia negli inquirenti, perché con loro abbiamo costruito un rapporto di collaborazione nel sostegno alle vittime che "hanno il coraggio di denunciare", un protocollo tra femminismo e questura di Napoli. Abbiamo anche noi avuto coraggio, a sperimentare una strada che nel 2005 sembrava impercorribile, avviando il dialogo nei luoghi dove la violenza è intercettata: commissariati ed ospedali.
Teresa ha avuto coraggio ed ha investito su una risposta che dallo Stato non è venuta. Non si tratta di fatalità, come non lo è stata per Matilde Sorrentino, nemmeno a dirlo, uccisa con modalità camorristiche, per aver difeso i figli di tutte dagli orchi di Torre Annunziata.
C'è tanto da fare nel nostro paese, simbolicamente, a partire dai luoghi dove la proprietà sui corpi e la pretesa del silenzio esibiscono l'affronto aperto alla sovranità dello Stato di diritto. Non si tratta solo del Sud, o almeno si tratta di quel sud che è ovunque la comunità nazionale individua nella vittima "la colpa di non aver avuto coraggio, ed insieme di averne avuto troppo", cioè dovunque c'è una cittadina di serie b, una donna.

In questi giorni Dacia Maraini ha affermato che la serie infinita dei femminicidi mostra la scomposta reazione alla maggiore richiesta di libertà delle donne, merito, ha detto, del femminismo.
Noi aggiungiamo che c'è un altro merito, taciuto ancora pervicacemente nella categoria "e femministe dove sono?", oltre la rivendicazione della sacrosanta libertà, di tutti, dalle violenze contro le donne. È il merito di aver promosso il "tema culturale" del femminicidio, facendolo approdare tra le istanze di piena responsabilità e competenza del potere politico.

Se i cittadini spettatori non parlano, se le vittime sono sole, se alle donne viene chiesto il coraggio di morire, se lo Stato protesta come un comune cittadino e come quello si rifugia nella retorica, vuol dire che manca qualcosa. Nella difesa di molti diritti manca qualcosa, ma quel qualcosa che manca nel caso delle uccisioni sistematiche delle donne è la presenza simbolica dello Stato, che altrove si esprime se pure in modo inefficiente.
Contro altri reati, lo Stato tiene a difendersi dalle accuse dei cittadini per i suoi insuccessi. Questo perché il danno provocato dei reati camorristici, comunemente detti, e corruttivi, comunemente detti, con leggi e provvedimenti, è riconosciuto formalmente come danno allo stato ed alla comunità tutta.
Contro le violenze sulle donne e la loro uccisione, non è avvenuto nulla di più che l'introduzione di una parola, che sembra uno sport (stalking, che come dice Maraini andrebbe sostituita con persecuzione) e la diffusione di uno spot che reclamizza un prodotto che non si vende e non è a disposizione dello Stato: il coraggio delle donne.

Il dolore che di nuovo proviamo è pieno di rabbia.

UDI di Napoli

mercoledì 1 settembre 2010

la scuola pubblica nonostante riforme improvvisate, proclami, minacce e calunnie continua a camminare


Insegnanti «mamme» o «amiche»,
noi «gentiliane» sembriamo strambe
La lettera
Gentile Direttore, ho apprezzato l'articolo di Giovanni Belardelli (Corriere di venerdì) sulla crisi della scuola e dei docenti, che vivo dall'interno come insegnante di tedesco alle superiori. Spesso ci sentiamo soli, isolati, non solo perché il nostro lavoro è poco riconosciuto, ma anche perché all'interno della scuola in genere ci sono troppi conflitti e manca per così dire lo spirito di corpo, il fatto di essere una squadra; scuola quindi specchio di una società divisa, a volte con conseguenze negative per gli studenti… Non credo molto nella valutazione degli insegnanti attraverso esami che riconoscano il merito, perché anche nella scuola, come nella società, ci sono tante parrocchie e parrocchiette, con i rispettivi santi protettori, che non sono in cielo, ma sulla terra e spesso sono molto, molto influenti.

Vorrei precisare inoltre che il punteggio non dipende solo dall'anzianità di servizio, ma anche dal fatto di avere o meno dei figli (retaggio dell'epoca mussoliniana?): se non sbaglio, 4 punti ogni anno per i figli fino a 5 o 6 anni, 3 punti ogni anno fino al compimento dei 18 anni. Ma il ministro Gelmini non aveva detto che la scuola non è un ente assistenziale? Subito dopo i precari, sono stati gli insegnanti di ruolo single/senza figli le prime vittime della riforma; come mantenere l'entusiasmo dei primi tempi, se quello che si fa per migliorare e coinvolgere gli alunni non viene comunque riconosciuto? Scambi con l'estero, progetti europei, certificazioni, le famose visite di istruzione, dette comunemente «gite», progetti per gli studenti stranieri ecc. sono tutti extra miseramente retribuiti, che non valgono nemmeno per il punteggio. La conclusione è che la scuola in generale si basa sulla buona volontà o sul coraggio degli insegnanti, precari o di ruolo. Stop. Gli insegnanti «gentiliani», che sono stati anche i miei insegnanti e i miei modelli, sono una specie in via di estinzione.

Chi c'è al loro posto? Potrei fare qualche esempio: l'insegnante «mamma», che considera prevalente l'elemento educativo, sicuramente parte dell'insegnamento, con la certezza inossidabile che una madre sia automaticamente una brava educatrice (risposta di una collega a un mio intervento durante un consiglio di classe: «Tu queste cose non le puoi capire, perché non hai figli»); in genere provenienti da un ambito cattolico, pensano di essere le uniche depositarie dei valori. Ancora, l'insegnante «amicone»: si veste e si comporta come un adolescente anche oltre i 40 anni, i suoi voti scendono raramente sotto il sei e ama sparlare degli altri insegnanti con gli alunni; l'insegnante «psicologa» si occupa prevalentemente del disagio adolescenziale, che in qualche caso si manifesta singolarmente in modo acuto in occasione di compiti in classe e interrogazioni. Un altro caso è l'insegnante in «standby», a cui mancano pochi anni alla pensione, che ripete le stesse lezioni quasi senza cambiare una virgola, come un vecchio attore, pensando all'ambito traguardo. Poi l'insegnante «burocrate», che usa volentieri il linguaggio tecnico della scuola: se gli rivolgi una domanda con parole comuni ti guarda perplesso e non risponde. Io credo di essere nella categoria degli scettici e dei dubbiosi, che non si fanno illusioni, ma cercano alla lontana di essere «gentiliani», tollerati da alcuni colleghi come fossili viventi, persone un po' strambe che non vogliono omologarsi, ma pensare con la loro testa. Però, se la scuola pubblica nonostante riforme improvvisate, proclami, minacce e calunnie continua a camminare, magari in modo incerto, vuol dire che ci sono ancora bravi insegnanti che amano il loro lavoro sottostimato, sottopagato, sottovalutato, in altre parole sotterraneo. Cordiali saluti

Nadia Marchetti
Laveno (Va)
01 settembre 2010

lunedì 30 agosto 2010

La via femminile al Potere.


Tiziana Bartolini
Che l’autunno si prospetti ‘caldo’ è un’ipotesi, che sarà problematico è una certezza. La crisi che si è prodotta nel governo Berlusconi con l’uscita dal PdL di Fini e dei parlamentari che hanno dato vita a ‘Futuro e libertà’ avrà ripercussioni notevoli, e tutte da sperimentare, sul versante politico. I prossimi passaggi ci diranno se si tratta di un assestamento di potere interno al centrodestra o se, invece, si è avviato un mutamento genetico del quadro politico destinato ad aprire la strada alla ‘terza Repubblica’, o a qualcosa di simile. In tanto sommovimento, come donne che facciamo, che diciamo? Siamo molto indaffarate tra femminicidi incessanti, calo dell’occupazione e dei redditi di contro al prolungamento della vita lavorativa. Non bastasse già questo, ci dobbiamo anche sobbarcare l’onere di contrastare continui tentativi di rimettere in discussione leggi o posizioni conquistate. La fatica è ancora più gravosa quando le firme in calce a proposte di legge o circolari ministeriali sono di genere femminile. Si dirà che le donne non hanno mai avuto una posizione univoca e che anche in passato, di fronte alle lotte per il divorzio o per la regolamentazione dell’aborto, non erano poche le voci dissenzienti. La novità, mi pare, è che oggi quelle voci si sono fatte più minacciose in forza dei ruoli di potere da cui provengono. Quelle che ieri erano opinioni ora diventano atti di governo, nazionale o territoriale. Di fronte a questo cambio di passo è sufficiente riorganizzare le fila di un movimento di donne avendo come riferimento le esperienze passate? Possiamo affidare solo a facebook il compito di rinnovare linguaggi e metodi? La questione mi pare essere più complessa e riguarda, nel profondo, l’idea della Politica e del Potere e di come il pensiero femminile si pone in relazione interna ed esterna a queste dimensioni. Sono tante, anzi troppe, le donne che hanno accettato le ‘regole del gioco’ (maschili) per ottenere un posto, una candidatura o un seggio. Sono tante, anzi troppe, le donne che non si sono sottomesse a queste logiche. E il ‘sistema’ le ha espulse. Ma quale è una o la via ‘femminile’ al potere? Abbiamo discusso di quote, ma non di come riconoscere, promuovere, sollecitare il femminile al comando e le (poche) donne che hanno infranto il soffitto di cristallo o imitano pensieri e metodi maschili o appaiono smarrite o sono ininfluenti. È arrivato il momento di fare un po’ di ordine e di spiegarci - da un punto di vista di genere - quello che proprio non va bene e di chiedere conto di quello che dicono e fanno alle donne ‘che decidono’. Nella politica e non solo. È positivo che una donna sia presidente di Confindustria se non pensa e agisce diversamente da chi l’ha preceduta? Facciamoci la domanda e diamoci una risposta. Tanto per capire da dove dobbiamo ri-partire, anche considerando la crisi globale e il nuovo indispensabile per superarla.

sabato 28 agosto 2010

Pubblica e privata, non è la stessa scuola



Pubblica e privata, non è la stessa scuola
Una certa destra attacca il Risorgimento. È coerente con un disegno reazionario che riguarda anche la scuola
Stefania Friggeri
Rileggere la “Storia dell’educazione popolare in Italia” di D. Bertoni Jovine, un classico della storiografia pedagogica, sarebbe molto istruttivo in questi tempi in cui si rischia di tracciare nuove vie verso il futuro senza aver riflettuto in modo approfondito sull’eredità del nostro passato, come dimostra il chiacchiericcio mediatico nei salotti tv sul Risorgimento (l’anno prossimo cadono i 150 anni dalla proclamazione dell’Unità d’Italia). Leggiamo: raggiungere l’obiettivo di scolarizzare le bambine rimaneva molto difficile sia prima che dopo l’Unità perché “C’era di mezzo un pregiudizio secolare che la Chiesa e i governi avevano perpetuato e che aveva portato all’analfabetismo integrale del sesso femminile delle classi povere, appena temperato nelle classi agiate”. Per le bambine dunque solo cucito e catechismo perché il sapere, inutile alle madri, avrebbe potuto allontanarle dalla modestia, ovvero dalla virtù che, insieme alla sottomissione, dava valore alla donna. E se la maestra voleva insegnare a leggere, scrivere e far di conto? Nello Stato della Chiesa avrebbe dovuto presentare la domanda e aspettare speranzosa la risposta. Nelle scuole parrocchiali dello Stato della Chiesa inoltre le materie scientifiche non erano insegnate perché “i lumi sono sempre volterriani, sono il mito della ragione contro la fede” (ivi), ovvero: “tutte le scienze che inducono il fanciullo all’osservazione spregiudicata dei fatti storici e naturali sono scienze diseducative, se per educative si intendono soltanto le suggestioni che rafforzano la fede” (ivi).
Ma sono gli anni in cui si avvia anche in Italia la rivoluzione industriale e la borghesia emergente, che ha investito capitali ed energie, chiede allo stato una scuola pubblica che, eliminato l’anacronismo di tenere il mondo del sapere lontano dal mondo del lavoro, risponda al bisogno di una manodopera qualificata. Il clero, che da sempre detiene il monopolio sull’istruzione, consapevole anche del fatto che possedere la direzione della cultura popolare equivale a possedere un mezzo di dominio, attiva una resistenza, tenace ma infruttuosa: nel clima agitato dai rivolgimenti che attraversano l’Europa, i tempi si sono fatti maturi per le riforme e il Parlamento subalpino vota la legge Casati (1859): nella scuola viene stabilita l’uguaglianza per i due sessi, è previsto un corso superiore (facoltativo) vicino a quello elementare (obbligatorio), viene iniziato un percorso verso la laicità, che sbocca nel 1877 nella legge Coppino. Con la quale, abolita la figura del direttore spirituale nel corso superiore, si dispone genericamente che la scuola provveda ad insegnare i “doveri dell’uomo e del cittadino”.
La Chiesa sembra sconfitta ma in verità le riforme e l’impegno per l’unificazione nazionale nascono dai “cattolici adulti” di quel tempo, i quali vedevano la fine del potere temporale come un’opportunità per il risorgimento della Chiesa stessa. Così infatti si esprimeva Cavour dopo la promulgazione delle leggi Siccardi: “Ora che la società posa sul principio dell’eguaglianza, sul principio del diritto comune, credo che il clero cattolico saprà molto bene adattarvisi, saprà farli suoi e con questo vedrà crescere la sua influenza, la sua autorità.”
Ma la Chiesa rifiuta i rapporti con lo Stato secondo l’impronta liberale e si arrocca in una visione conservatrice condannando col Sillabo il liberalismo, la democrazia, le libertà individuali e il socialismo. Saranno poi i socialisti, col loro municipalismo riformista, a caricarsi del compito storico di colmare le carenze dello stato liberale in materia di educazione popolare e di promozione del lavoro femminile, mettendo in primo piano la lotta all’analfabetismo. Un percorso interrotto dal fascismo che fa della scuola il cemento di una società di classe: selezione, licei come luogo esclusivo di formazione della classe dirigente, rinuncia dello Stato a una propria scuola dell’infanzia a favore di un quasi completo monopolio parrocchiale.
Non a caso figlia di quello che è stato giustamente definito “secondo Risorgimento”, sarà la Costituzione repubblicana a dettare un alto profilo di politica egualitaria nel campo dell’educazione e della condizione femminile. E verranno così, grazie soprattutto ai movimenti di massa, con l’UDI in primo piano, le leggi di tutela della maternità, l’istituzione della scuola media unica, la scuola materna statale (quasi la violazione di un tabù), la legge sui nidi. La storia tuttavia non è un processo lineare e sono possibili drammatici salti all’indietro, come quello che sta tramando il duo Tremonti-Gelmini: in nome della famiglia e della libertà d’insegnamento (quando servono i valori liberali vanno recuperati) la scuola pubblica viene mortificata a vantaggio di quella privata (leggi cattolica). Come non vedere allora che l’aggressione di certa destra contro il Risorgimento si spiega anche all’interno di un disegno reazionario che tende ad allargare oltre la Lombardia il modello di scuola Formigoni-CL.?

venerdì 27 agosto 2010

Il lavoro (nero) di casa



Alle donne continua ad essere assegnato un ruolo prevalentemente domestico-assistenziale
Gianna Morselli
In una trasmissione televisiva, fascia mattutina, scopriamo che la signora Maria impiega più o meno 200 ore all'anno per stirare gli indumenti del suo nucleo familiare, cinque settimane lavorative, ovviamente a titolo gratuito e, se vogliamo essere sarcastiche, nemmeno pagate “in nero”.
Ma c'è di più, il suggerimento, che è scaturito, è veramente illuminante su come manchi completamente la consapevolezza, in generale, della gravità di certe affermazioni. Il consiglio sicuramente dato a fin di bene, per le tasche delle famiglie italiane, è stato quello di stirare la sera dopo le 20 e nei giorni festivi, la tariffa elettrica in quelle fasce, a partire da questo mese, costerà meno e si potranno risparmiare ben cinque euro!
Care signore, non basta che si lavori otto ore al giorno ma per finire in bellezza una giornata di meritato sfruttamento, abbiamo il privilegio di continuare a lavorare “ in nero” anche la sera dopo avere preparato la cena, lavato i piatti e riassettato. Se poi vi annoiate il sabato e la domenica potete impiegare il tempo stirando, oppure riempire la lavatrice più volte perchè potrete in questo modo risparmiare sulla bolletta dell'elettricità. Mi rendo conto che questo è solo un piccolo esempio, anche banale, su come veniamo considerate noi donne ma se iniziate ad osservare e ad ascoltare con occhi e orecchie in maniera oggettiva i messaggi che ossessivamente ci vengono somministrati da mamma TV vi accorgerete come ci venga instillato chirurgicamente il concetto che il nostro ruolo è prevalentemente di servizio: domestico-assistenziale, ovviamente senza percepire alcun compenso. La nostra natura, ci viene insegnato fin dalla più tenera età, è costituita da un prorompente e impulsivo bisogno di prendersi cura di tutto ciò che ci circonda e in modo particolare della casa, di un marito, genitori anziani ed eventuali figli , senza dimenticare i nostri amici a quattro zampe. Oltre a questo, quando si è cresciute, ci viene suggerito che dobbiamo essere sempre raggianti, in ordine, truccate e pronte all'amplesso. Sul lavoro poi dobbiamo dimostrare che ci meritiamo lo stipendio che ci viene concesso, anche se a pari lavoro un uomo guadagna mediamente il 30% in più di noi. Eppure nonostante tutto queste ingiustizie di genere, continuo a pensare che siamo noi la parte propulsiva del genere umano! Ma allo stesso tempo comincio fortemente a tentennare sulla capacità delle donne di rendersene conto!


(23 agosto 2010)

lunedì 9 agosto 2010

IL CORPO, IL POTERE POLITICO E IL POTERE ECONOMICO

di Maria Laura Di Tommaso 13.07.2009
In questi ultimo periodo della politica italiana siamo stati sollecitati a riflettere sulla relazione tra uso del corpo e potere, potere economico e potere politico. Analizziamo da un punto di vista economico quanto sta succedendo: dal lato della domanda e dal lato dell'offerta.
Dal lato dell'offerta, in un certo senso, tutti usiamo il corpo per guadagnare, chi usa la voce, chi usa le mani, chi usa altre parti del corpo. In una situazione di forte disparità economica (il differenziale salariale tra uomini e donne in Italia è tra il 20 e il 30 per cento) saranno le donne ad utilizzare di più alcune tipologie di lavoro come vendere l'immagine del proprio corpo, prestarla per servizi di escort, oppure per vendere servizi sessuali. Dal lato dell'offerta non sembra ci siano domande rilevanti. L'uso del corpo delle donne e degli uomini fa parte di una logica economica molto chiara che è alla base dei modelli di economia del lavoro. E' una questione di salario orario e di disparità economica. Politiche che diminuiscano la disuguaglianza economica avrebbero un effetto negativo sull'offerta.
Molto più complessa è l'analisi della domanda. Tuttavia mai come in questa stagione della politica italiana e' emersa chiaramente la logica della doppia morale. Una logica molto vecchia che ha radici profonde anche in certo cattolicesimo. Perche' doppia morale? Da un lato si approva un disegno di legge (approvato dal Consiglio dei Ministri l'11 Settembre 2008) che prevede pene severe per chi compra o vende servizi sessuali in luoghi pubblici cioe' un disegno di legge di stampo proibizionista, dall'altro si utilizza il corpo come richiamo sessuale per aumentare l'audience dei programmi televisivi e si accetta una mentalita' di potere che "utilizza" il corpo delle donne in modi diversi inclusi servizi di escort e servizi sessuali.
Questa doppia morale ha effetti diversi sulla domanda; se il disegno di legge venisse approvato in Parlamento e se ci fossero sufficienti risorse in termini di controlli per penalizzare i clienti, un primo effetto sulla domanda potrebbe essere di scoraggiamento. A questo effetto si aggiungerebbe anche un effetto di occultamento del fenomeno; si ricorda infatti che il disegno di legge proibisce sia di vendere sesso che di comprarlo in luoghi pubblici, ma non si pronuncia se lo scambio avviene in luoghi privati. D'altro lato, invece, il continuo utilizzo di immagini di corpi come richiamo sessuale nei programmi televisivi e l'accettazione di una mentalità in cui le donne sono considerate oggetti da mostrare, da "utilizzare" ha un effetto positivo sulla domanda.
Le interpretazioni che la maggior parte delle testate giornalistiche ha contributo a diffondere sulle questioni che riguardano il corpo, il potere politico e il potere economico sono sostanzialmente di due tipologie: da un lato si sottolinea che l'attuale maggioranza politica ed in particolare il Presidente del Consiglio abbia una visione delle donne come oggetti da utilizzare, dall'altro si sottolinea l'importanza della divisione tra vita privata e vita pubblica.
La prima e' riduttiva, la seconda incoerente.
La visione che accentua l'uso del corpo delle donne come oggetti da mostrare, da "utilizzare" di cui vantarsi in un certo mondo politico, corrisponde senz'altro a quanto abbiamo appreso da alcune interviste con Maria Teresa De Nicolò e Patrizia D'Addario (donne che hanno rilasciato interviste alla Repubblica e sono state chiamate a testimoniare dai magistrati di Bari come persone informate dei fatti) e dallo stesso avvocato del Primo Ministro.
Tuttavia è riduttiva. E' riduttiva perché non considera che quello che conta qui non è tanto la visione della donna ma la visione del potere. Se infatti le preferenze sessuali degli uomini di potere fossero diverse non si esiterebbe a "usare" anche uomini. Inoltre non sappiamo, perché non è verificabile nel nostro contesto politico, se un potere politico femminile utilizzerebbe gli stessi strumenti. Non è verificabile ma molti studi nel settore del mercato del sesso mostrano che la richiesta di prestazioni sessuali maschili per clienti donne sia in aumento. Quindi clienti americane o europee che richiedono servizi di escort e servizi sessuali a pagamento a uomini che provengono da paesi in via di sviluppo (Brasile, Cuba, Bahamas). Anche una visione superficiale dei quotidiani, di riviste e di programmi televisivi ci conferma che l'uso del corpo maschile non solo di quello femminile serve per vendere il prodotto.
L'altra posizione quella che invoca la divisione tra vita pubblica e vita privata è anche molto difficile da sostenere. Questa divisione potrebbe essere invocata da un governo che non si pronunci su questioni morali. Un governo che non invochi la morale a sostegno di scelte e di proposte di legge sulla procreazione assistita, sul testamento biologico, sulla prostituzione. Un governo liberale nel senso storico del termine. Ma non da questo governo.
Quindi l'argomento è molto più ampio. Dal lato dell'offerta, una situazione di povertà e di disuguaglianza economica e, dal lato della domanda, una mentalità della maggioranza delle persone italiane che accetta che il potere si eserciti anche sull' "uso" del corpo delle donne. Ma potrebbe essere anche di quello degli uomini. Infatti quello che conta qui è la disuguaglianza di potere e di risorse economiche.


» GIORNALI CHE OFFENDONO LE DONNE , Daniela Del Boca e Nadia Urbinati 03.07.2009
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giovedì 5 agosto 2010

IO,ELVIRA E L'OMBRA DI SCIASCIA


Io, Elvira e l’ombra di Sciascia
Ferdinando Scianna omaggia l'editrice: 'Rivoluzionò l'isola'
Guardavano la storia e nella storia, musulmana, romana, bizantina e di chiunque altro fosse sbarcato per poi andare via, volevano rimanere. Elvira Sellerio e Leonardo Sciascia, di fronte alle possibilità di un’isola, non fuggirono. E oggi, che a 74 anni, la prima saluta il mondo al termine di una malattia tenuta tra le pieghe del pudore raggiungendo il secondo, ricostruire i frammenti di discorso amoroso che permisero il sogno intellettuale e concretissimo di una casa editrice che a migliaia di chilometri da Milano, in Via Siracusa a Palermo, proponeva un proprio modello culturale senza compromessi, è tutto tranne che un esercizio inutile. “Inventarono, dal nulla, un miracolo”. La sintesi di uno dei più importanti fotografi del mondo, Ferdinando Scianna, 67enne, apolide di Bagheria, trascinano indietro. Alla Sicilia ventosa del 1969, l’anno in cui Elvira Sellerio trasformò l’autunno caldo in un soffio di cambiamento. Amico di Berengo Gardin, Borges e Cartier Bresson: “Ma il più caro fu Leonardo”. Scianna fu testimone a colori – “Proprio io che ho sempre sostenuto di pensare e guardare soltanto in bianco e nero” – dei primi incoscienti passi di un’impresa che amici e nemici, equamente, sconsigliavano. “Vi schiacceranno”. Si sbagliavano. Sellerio, con la copertina blu e il volume inversamente proporzionale al valore delle opere, è ancora lì. Più forte della vita, meno crudele della morte. L’autore de “Il giorno della Civetta” e Gesualdo Bufalino, Camilleri e Canfora, riflessioni, provocazioni, prodigi. Scianna vide. Ora racconta.

Cosa rappresentò Elvira Sellerio?
La casa editrice era il suo sogno. Con Leonardo parlava spesso del fatto che c’era stata una stagione importante dell’editoria siciliana e di quanto fosse fondamentale rinnovarla.

Leonardo ed Elvira, soli contro l’establishment.
Quando era a Caltanissetta, Sciascia collaborava con un editore indigeno, omonimo, ma non parente. Faceva una rivista in cui pubblicava Pasolini. Con Sellerio adottò lo stesso criterio. Per Elvira, fin dal princìpio, Leonardo diede tutto e ogni sforzo compì. Scriveva qualunque cosa. Anche i risvolti di copertina.

Anche quelli?
Mi creda. La nascita di Sellerio fu un evento a cui dedicò una passione straordinaria. Notte e giorno, senza risparmio.

Ricorda gli inizi?
Mediati dal racconto di Leonardo. Elvira la incontrai qualche volta, ma Sciascia non mi teneva a digiuno di particolari. Come tutti gli avvii, anche quello di Sellerio fu complicato e difficoltoso.
La prima volta che si videro, lui timida, lui sulle sue, parlarono di letteratura. Pasternak, il Dottor Zivago.
Lui era già Sciascia, lei non ancora Elvira Sellerio. Leonardo le offrì intuizioni considerevoli ma lei sapeva bene cosa fare. Recuperava reliquie dai cataloghi di libri perduti, sconosciuti, oppure pubblicati e poi dimenticati.

Esempi?
Mi ricordo che riuscì a far diventare un piccolo bestseller la grammatica siciliana.

Il rapporto tra Sciascia e Sellerio. Due introversioni allo specchio.
Sellerio fu un cenacolo intellettuale, nella miglior accezione del termine. Leonardo era un uomo di circolo. La mattina scriveva e poi nel pomeriggio raggiungeva la piazza. Lì vibrava il cuore del paese. Letteratura, facce, persone.

Sellerio fu la sua piazza palermitana?
Esattamente. A un certo punto, anche la Sellerio divenne una sorta di agorà. Una terra di mezzo in cui si incontravano visioni, si analizzava il mondo, e si verificava senza preavviso, il circuito virtuoso delle idee.

Una bella cosa.
Come dovrebbero essere lecase editrici e come non sono più da tempo.

A Sciascia, Sellerio piaceva.
Per me una casa editrice è solo il metro che mi dà la misura dell’episodicità delle relazioni. Ho un libro, chiedo di pubblicarlo, consegno il materiale. Per Elvira e Leonardo, era diverso. Sarà stata la Sicilia di quegli anni o il verificarsi di tutte le condizioni ideali. Ma Sellerio era speciale.

Speciale come?
Piccola, libera, coraggiosa. Come sempre sono le imprese quando nascono.

Lei è stato in India, In Africa, in Bolivia. Nella Sicilia in cui Elvira Sellerio scelse di fermarsi, le capita mai di tornare?
Non la biasimo e anzi, ho capito la sua scelta. Sa come sono queste cose? Uno abbandona con propositi non concilianti: “Non mi rivedono neanche morto” e poi invece ci ripensa. Non c’è niente da fare. La mia formula? Da 40 anni tento di divorziare dalla Sicilia e quella non ne vuole sapere.

Sellerio era anche sinonimo di conduzione femminile.
Il bastone del comando era tenuto dalle donne e in quelle stanze, la letteratura sembrava fosse un privilegio quasi esclusivamente femminile. Un’anomalia paradossalmente molto sciasciana.

Non mi dica.
Sciascia oltre ad essere siciliano fino al midollo, era anche un genio. Prenda la sua passione letteraria per Maria Messina. Leonardo era generoso. Elvira Sellerio ne avrà sicuramente rafforzato le convinzioni.

Siciliano ma non cieco.
Non ignorava quella che era stata la condizione drammatica della donna nella cultura e nella vita siciliana. Aveva una sensibilità straordinaria, per queste cose, Sciascia. Elvira gestiva la casa editrice con molta perizia e tenacia, e non credo che scegliere delle ragazze per condurre la nave anche nelle difficoltà, rappresentasse una trovata per dispiacere Leonardo.

Lei conobbe Sciascia a 20 anni.
Ogni tanto ci incontravano per strada e gli chiedevano: “e’ suo figlio?” e io, per toglierlo dall’imbarazzo: “No, mi è bastato mio padre”.

Baldassarre. Un uomo duro, all’antica.
Gli confessai che volevo fare il fotografo e lui mi disse: “Di che si tratta esattamente?”. Non seppi spiegarglielo. Era troppo misterioso. Senza volerlo, papà mi aveva dato i mezzi per spandere tra noi l’incomunicabilità.

Amava le complicazioni?
Prenda “Todo modo”. Anche oggi, a distanza di quasi 40 anni, è un libro che fa paura.

Non solo.
E’ anche l’istantanea dell’ambiguità dell’universo intellettuale italiano nei confronti di Sciascia. Lo utilizzano ma non lo risolvono. Lo trattano come un sociologo. Invece Leonardo valeva Dostoevskij. Certe sue riflessioni sul male, le ritrovi solo in “Delitto e castigo”.

Cos’era esattamente la Sellerio?
Il contrario di una casa editrice militante. Una grande comune in cui ragionare di cultura. Un altra maniera di intendere il rapporto con la scrittura, con la società, con la vita.

Possibilità tramontata?
Non è colpa di nessuno ma temo di sì. Allora, fu l’ultima stagione in cui un’ipotesi del genere fu percorribile.

E uno Sciascia esiste ancora?
Non ci sono più i maître à penser , nella realtà italiana e nella cultura, quel tipo di ruolo è difficile da svolgere. A me, che ero un ragazzino di enciclopedica ignoranza, insegnò tutto. Anche l’incontro con Elvira Sellerio, credo, si svolse all’insegna di un’estrema naturalezza.

Lavorò fino alla fine?
Anche quando era a Milano, malato, Leonardo faceva il direttore editoriale. Arrivavano signori incravattati, dirigenti delle case editrici e lui: “Quel libro bisognerebbe riprenderlo”. Tutti a prendere appunti. Di corsa.

Con lui a Parigi, conobbe avventure formidabili.
Una volta mi chiese se avessi mai visto dei film pornografici. Negai e gli risposi: “Ci sono delle sale consacrate al tema”. Andammo, rimanemmo un quarto d’ora. Mi guardò sconsolato: “ce ne andiamo?”. Uscimmo.

Fu deluso?
Profondamente. Dal fatto che un mistero come l’eros, un ambito che non aveva bisogno della conferma di Freud per rivestire la sua importanza fosse così banalizzato da un punto di vista letterario. La finzione della passione lo agghiacciò: “In quella sala, il vero spettacolo osceno eravamo noi”. L’oscenità stava nel trasformare la pulsione in merce.

La curiosità dei 20 anni le è rimasta addosso?
Io invidio gli 80 anni di Berengo Gardin. La sua tenacia, la molla dell’esistenza sempre tesa. Io non ce l’ho più. Faccio solitari con le carte che ho messo insieme negli ultimi 45 anni. C’è un certo disincanto, ma è anche una questione fisica.

Si spieghi.
La fotografia per me è stata una faccenda legata al corpo. E il corpo, purtroppo, se ne va.

La descrivono riottoso alle celebrazioni.
Sciascia suscitava anche atteggiamenti di devozione anche ridicoli, per questo io non ho mai voluto partecipare ai rituali, ai club degli amici. Quando me lo chiedono, li gelo: “Sono un amico di Sciascia, ma senza tessera”.

Non ce n’era bisogno.
La nostra fu un’amicizia, non un amore. Una cosa più importante. Un vero e proprio miracolo. Nell’amore c’è sempre un interesse, qualcuno che ti vuoi portare a letto. Lo scambio delle chiavi della coscienza, invece è meraviglioso, finché non ti fanno quella porcheria che Sciascia mi ha riservato. Morire.

NON CHIAMIAMOLI DELITTI PASSIONALI.....


Non chiamiamoli delitti passionali .
Martedì 13 Luglio 2010 18:27 S. Guglielmi .Sconvolge la quantità di donne morte ammazzate per mano di uomini che in questi giorni affolla le pagine dei giornali, le immagini dei telegiornali, i setting dei talk-show. Sconvolge anche sentire, ogni volta, ancora adesso, definirli ‘delitti passionali’.

Le parole sono importanti e tanto più lo sono quando vengono usate per definire fatti che nulla hanno a che vedere con quelle parole.

Cosa c’è di ‘passionale’ in un delitto? La passione è positiva, è vitale, è costruttiva. La passione appartiene alla prima fase dell’amore, a quel momento in cui si è talmente euforici ed euforiche da fare cose che altrimenti non si farebbero. Ma non certo un delitto!

Il delitto, se commesso da un uomo sulla donna, per il solo fatto che la vittima è una donna, altro non è se non un caso di femminicidio. E di certo non troverà origine nella passione ma nella paura, nel senso di inadeguatezza, nel senso di inferiorità, nel senso di impotenza che evidentemente così tanti uomini provano in confronto alle donne.

Sul punto esistono numerosissimi studi, ricerche, indagini, soprattutto grazie alle associazioni di donne che hanno ampiamente dimostrato la negatività di questa cultura.

Tuttavia, esiste ancora, in una parte significativa della popolazione, la convinzione che eros e thanatos vadano d’accordo ed è ancora fortissima la convinzione che tra donna e uomo un po’ di violenza sia normale ed ancora tantissime sono le donne convinte che se lui le picchia lo fa perché le ama. Ebbene, questa cultura produce solo danni creando confusione nell’educazione di uomini e donne, posti di fronte a modelli sbagliati vissuti come esperienze ineluttabili.

Questa cultura è profondamente sbagliata e parte, anche in questo caso, dalle parole sbagliate.

Stefania Guglielmi e le donne dell’UDI di Ferrara
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mercoledì 14 luglio 2010

PERCHE' GLI UOMINI UCCIDONO LE DONNE



Molti di questi definiti delitti passionali sono il sintomo del declino dell'impero patriarcale. La violenza non è solo di pazzi, mostri, malati. E poco importa il contesto sociale: non si accetta l'autonomia femminile
di MICHELA MARZANO
Si continua a chiamarli delitti passionali. Perché il movente sarebbe l'amore. Quello che non tollera incertezze e faglie. Quello che è esclusivo ed unico. Quello che spinge l'assassino ad uccidere la moglie o la compagna proprio perché la ama. Come dice Don José nell'opera di Bizet prima di uccidere l'amante: "Sono io che ho ucciso la mia amata Carmen". Ma cosa resta dell'amore quando la vittima non è altro che un oggetto di possesso e di gelosia? Che ruolo occupa la donna all'interno di una relazione malata e ossessiva che la priva di ogni autonomia e libertà?
Per secoli, il "dispotismo domestico", come lo chiamava nel XIX secolo il filosofo inglese John Stuart Mill, è stato giustificato nel nome della superiorità maschile. Dotate di una natura irrazionale, "uterina", e utili solo - o principalmente - alla procreazione e alla gestione della vita domestica, le donne dovevano accettare quello che gli uomini decidevano per loro (e per il loro bene) e sottomettersi al volere del pater familias. Sprovviste di autonomia morale, erano costrette ad incarnare tutta una serie di "virtù femminili" come l'obbedienza, il silenzio, la fedeltà. Caste e pure, dovevano preservarsi per il legittimo sposo. Fino alla rinuncia definitiva. Al disinteresse, in sostanza, per il proprio destino. A meno di non accettare la messa al bando dalla società. Essere considerate delle donne di malaffare. E, in casi estremi, subire la morte come punizione.
Le battaglie femministe del secolo scorso avrebbero dovuto far uscire le donne da questa terribile impasse e sbriciolare definitivamente la divisione tra "donne per bene" e "donne di malaffare". In nome della parità uomo/donna, le donne hanno lottato duramente per rivendicare la possibilità di essere al tempo stesso mogli, madri e amanti. Come diceva uno slogan del 1968: "Non più puttane, non più madonne, ma solo donne!". Ma i rapporti tra gli uomini e le donne sono veramente cambiati? Perché i delitti passionali continuano ad essere considerati dei "delitti a parte"? Come è possibile che le violenze contro le donne aumentino e siano ormai trasversali a tutti gli ambiti sociali?
Quanto più la donna cerca di affermarsi come uguale in dignità, valore e diritti all'uomo, tanto più l'uomo reagisce in modo violento. La paura di perdere anche solo alcune briciole di potere lo rende volgare, aggressivo, violento. Grazie ad alcune inchieste sociologiche, oggi sappiamo che la violenza contro le donne non è più solo l'unico modo in cui può esprimersi un pazzo, un mostro, un malato; un uomo che proviene necessariamente da un milieu sociale povero e incolto. L'uomo violento può essere di buona famiglia e avere un buon livello di istruzione. Poco importa il lavoro che fa o la posizione sociale che occupa. Si tratta di uomini che non accettano l'autonomia femminile e che, spesso per debolezza, vogliono controllare la donna e sottometterla al proprio volere. Talvolta sono insicuri e hanno poca fiducia in se stessi, ma, invece di cercare di capire cosa esattamente non vada bene nella propria vita, accusano le donne e le considerano responsabili dei propri fallimenti. Progressivamente, trasformano la vita della donna in un incubo. E, quando la donna cerca di rifarsi la vita con un altro, la cercano, la minacciano, la picchiano, talvolta l'uccidono.
Paradossalmente, molti di questi delitti passionali non sono altro che il sintomo del "declino dell'impero patriarcale". Come se la violenza fosse l'unico modo per sventare la minaccia della perdita. Per continuare a mantenere un controllo sulla donna. Per ridurla a mero oggetto di possesso. Ma quando la persona che si ama non è altro che un oggetto, non solo il mondo relazionale diventa un inferno, ma anche l'amore si dissolve e sparisce. Certo, quando si ama, si dipende in parte dall'altra persona. Ma la dipendenza non esclude mai l'autonomia. Al contrario, talvolta è proprio quando si è consapevoli del valore che ha per se stessi un'altra persona che si può capire meglio chi si è e ciò che si vuole. Come scrive Hannah Arendt in una lettera al marito, l'amore permette di rendersi conto che, da soli, si è profondamente incompleti e che è solo quando si è accanto ad un'altra persona che si ha la forza di esplorare zone sconosciute del proprio essere. Ma, per amare, bisogna anche essere pronti a rinunciare a qualcosa. L'altro non è a nostra completa disposizione. L'altro fa resistenza di fronte al nostro tentativo di trattarlo come una semplice "cosa". È tutto questo che dimenticano, non sanno, o non vogliono sapere gli uomini che uccidono per amore. E che pensano di salvaguardare la propria virilità negando all'altro la possibilità di esistere.

(14 luglio 2010)

martedì 13 luglio 2010

ANCORA NON BASTA...???


di Concita De Gregori
Che altro deve succedere? "Cesare" - come lo chiamavano nel loro codice Flavio Carboni, Marcello Dell'Utri e soci - sapeva tutto.
«Cesare», cioè Silvio Berlusconi, il capo del governo di questo Paese, sapeva dei ricatti, delle minacce, dei falsi dossier confezionati per screditare candidati non graditi alla Cupola. La scelta del nome il codice è il dettaglio che fa luce sulla scena: Basso impero, scrivemmo molti mesi fa. Qualcosa di peggio. L'imperatore, diceva sua moglie. Nerone, e non più nella versione grottesca di Petrolini. Una china irreversibile in cui avidità e delirio di onnipotenza trascinano il corpo lacero della democrazia. Cosa serve ancora perché sia chiaro anche a chi lo ha votato che al posto di un governo la maggioranza degli italiani ha eletto un losco, impunito, pericolosissime comitato d'affari che opera nell'illegalità assoluta - criminale, dunque - e che agisce al solo scopo di favorire la sua impunità, appunto, i suoi interessi e quelli delle lobbies di riferimento che in questo caso non sono solo petrolieri e signori delle armi ma, prima ancora e insieme, mafia, 'ndrangheta, camorra.
Cesare sta portando il paese intero ad una condizione terminale di malattia, un cancro in metastasi che non sappiamo più se sia possibile fermare tagliando, togliendo - non basterebbero le dimissioni di una o due delle persone coinvolte, e comunque neanche questo accade. Ci sarebbe piuttosto da augurarsi, come accade per gli incurabili, una fine rapida, una morte che sia di sollievo. Ma cosa succede se a morire non è una persona ma un sistema di garanzie e di regole, un paese intero, la nostra Repubblica: è ugualmente lecito augurarsi la sua fine senza temere conseguenze imprevedibili? Abbiamo gli anticorpi necessari - e gli strumenti, la forza, la capacità - per gestire all'interno del processo democratico una così drammatica e invasiva crisi di putrefazione del sistema?
Qualche settimana fa questo giornale ha dedicato la copertina a Licio Gelli, "chi si rivede" era il titolo, ed ha per l'ennesima volta raccontato come questa classe politica sia figlia di quel progetto eversivo. Berlusconi-Cesare allora era un giovane affiliato così come molti dei suoi uomini. Abbiamo raccontato a chi ha meno di trent'anni cosa sia stata e cosa sia ancora la P2 senza curarci degli occhi al cielo e dei sospiri di sufficienza di chi ogni volta commisera la nostra ostinazione: "ancora la P2, che noia". Altri si sono mostrati più interessati. El Pais ci ha chiesto un lungo articolo sul tema, diffuso in Nord e in Sud America; alcune prestigiose università americane ci hanno domandato di incontrare gli studenti e i loro docenti per raccontare questa storia. Oggi alla cricca composta da alcuni sottosegretari di governo, da uomini di Berlusconi condannati per mafia, da faccendieri già attivissimi nei giorni del crac del Banco Ambrosiano oltre che da referenti della camorra e della 'ndrangheta i giornali danno il nome di P3. E' diversa, questa P3 dalla P2: è come se ne avesse mutuato solo il codice di comportamento - la corruzione, il ricatto, l'uso dei dossier per screditare gli avversari: è una banda che fa i suoi affari, parla in codice e in dialetto, non ha neppure la grandezza criminale di un disegno eversivo. Solo soldi, benefici privati, favori. Non abbiamo più nemmeno i golpisti di una volta. Cesare ha provato a risolvere il problema come fa sempre: occultandolo. Ecco l'urgenza della legge bavaglio. Non ha fatto in tempo, e di nuovo minaccia.