domenica 18 novembre 2012

FARSI L’AUTOCRITICA E ANDARE IN PIAZZA CON LORO

La nostra generazione, deve sentire il bisogno di recuperare agli errori commessi e aiutare i giovani. I nostri figli e nipoti sono nelle scuole occupate e nelle piazze a protestare per difendere l’istruzione pubblica e il loro futuro. Si trovano in queste condizioni non per loro responsabilità, siamo noi adulti che abbiamo creato questa condizione politica e sociale. Le nostre scelte sbagliate, l’opportunismo, il nostro silenzio e la voglia di non vedere per conservare il piccolo privilegio, ha letteralmente cancellato valori e prospettive. Abbiamo avallato e legittimato con il voto della maggioranza degli italiani, una classe politica incapace, corrotta e a volte collusa con la criminalità organizzata. Siamo diventati poveri e abbiamo tolto la speranza di un futuro per i giovani per il nostro egoismo e la voglia di arrivare a qualunque costo. Adesso l’unica cosa da fare per le giovani generazioni, è unirsi a loro, ascoltarli e cercare insieme prospettive, economiche , sociali e culturali adeguate alle esigenze della collettività. Piera Repici Roma,19/11/2012

giovedì 15 novembre 2012

FERMIAMOCI A RIFLETTERE SUL DESTINO DELLA NOSTRA SCUOLA

Appare evidente che con l’autonomia funzionale le scuole hanno assunto i caratteri di organizzazioni monocratiche, incentrate sul ruolo e sulle funzioni del dirigente scolastico, che li allontanava sempre più dalla loro natura di comunità professionale; da quella possibilità di scambio di esperienze “tra pari”, che sono proprie delle comunità di apprendimento, ove il sapere dell’uno viene messo a disposizione dell’altro. Il progetto di legge 953 di riforma degli organi collegiali della scuola dell’on. Aprea, approvato lo scorso 10 ottobre dalla Commissione Cultura della Camera, in sede legislativa, accresce la frattura tra il capo di istituto e il corpo docente, rafforza dunque il loro potere (già enorme): se gli statuti non saranno “illuminati” e non prevederanno un bilanciamento dei poteri, i dirigenti assumeranno gran parte delle competenze fino ad oggi in mano al Collegio docenti e al Consiglio d’Istituto; la legge Brunetta inoltre completerà i poteri per quanto riguarda la gestione del personale. Ben diversa, dall’autonomia statutaria delineata nel progetto di legge 4121, presentato dai deputati Laratta e Marini, il 25 febbraio 2011, rimasto quasi sconosciuto agli operatori della scuola. In questo progetto infatti, l’autonomia statutaria è collocata all’interno di una nuova architettura democratica dell’organizzazione scolastica che garantisce ad ogni componente partecipazione e corresponsabilità nelle scelte e nei risultati, con un rinnovato disegno dei poteri gestionali, distinti da quelli di indirizzo, affidati ad un organo collegiale dotato di ampie competenze e con un dirigente scolastico eletto e a tempo che, oltre a possedere un alto profilo culturale e professionale, goda anche di quella autorevolezza necessaria che solo la comunità nella quale opera può riconoscergli. Inoltre disegna un nuovo profilo professionale dei docenti, non più lasciato al solo scorrere dell’anzianità del servizio ma, per chi lo vorrà, aperto ad una prospettiva di sviluppo professionale, non molto diversa da quella dei docenti universitari e, come per questi, la possibilità per coloro che sono in possesso di uno specifico profilo culturale e professionale, di essere eletti preside di un’istituzione scolastica. Ciò, non tanto per gratificare una categoria professionale, ormai considerata semplicemente “risorsa”, ma come condizione per operare un effettivo cambiamento di direzione dell’asse dell’organizzazione scolastica, dal versante burocratico e amministrativo a quello di un’efficace gestione del processo di insegnamento-apprendimento, attraverso la valorizzazione del ruolo dei docenti nella gestione di tale processo e nel governo delle istituzioni scolastiche. Un ritorno della scuola, sul processo di insegnamento-apprendimento, che trova legittimazione nella Carta Costituzionale. Piera Repici Roma,16/11/2012

domenica 11 novembre 2012

I MIEI MIGLIORI ANNI

Cari ragazzi e colleghi, la vostra vivacità e voglia di costruire una scuola e un futuro dove regni la giustizia e la democrazia, mi hanno fatto rivivere "i miei migliori anni". Voi state costruendo un nuovo 68, ma le basi sono più solide di quelle che avevamo noi, perchè la mia generazione non ha avuto la maturità, la forza e la costanza necessari, per questo siamo riu sciti solo in parte a realizzare il nostro sogno di una società più partecipata e socialmente più equa. Voi avete la motivazione forte e gli strumenti culturali per farlo, lo dimostra il comportamento quasi sempre responsabile e l'entusiasmo di questi giorni, sono felice per questo, qualche risultato educativo la nostra generazione pare l'abbia ottenuto. Sono certa, voi potete portare a compimento un sogno che noi non abbiamo potuto e forse non voluto fortemente realizzare. PIERA REPICI

domenica 4 novembre 2012

violenza psicologica

--Chi è sottoposto a violenza psicologica si trova in uno stato di stress permanente.
--Parole, gesti, toni allusivi, offese velate o esplicite che possono umiliare, distruggere lentamente ma in profondità, senza sporcarsi le mani. --Dietro agli sguardi sfuggenti o sfidanti e disperatamente provocatori di molte donne, si possano celare situazioni di violenza psicologica, esercitata all’interno della sfera privata. Non ci sono solamente le violenze fisiche che comunque segnano profondamente le persone, esistono quelle psicologiche che non lasciano lividi sul corpo, ma che nel tempo producono ferite, dentro le persone, e che segnano profondamente la loro vita. Ci sono aggressioni che non agiscono direttamente sul piano fisico come uno schiaffo, una spinta, un pugno, un calcio. Possono essere violente le parole? Possono i toni di voce o i silenzi, togliere ogni sicurezza e gioia di vivere? Sì, ci sono parole che possono ferire come pugnali, possono essere usate per umiliare e distruggere una persona. Un clima di disapprovazione continua dove qualsiasi atteggiamento o comportamento viene ritenuto sbagliato, inadatto. --“..non sai fare nulla, sei proprio una persona inutile, che cosa vuoi parlare tu che non sei nessuno, solo una povera idiota potrebbe fare quello che fai tu..” – queste parole instillate, giorno dopo giorno, attuano un processo di distruzione psicologica spesso irreversibile. Parole, gesti, toni allusivi, offese velate o esplicite che possono umiliare, distruggere lentamente ma in profondità, senza sporcarsi le mani. Ma esistono manovre più nascoste come il sarcasmo, la derisione continua, il disprezzo, espresso anche in pubblico con nomignoli o appellativi offensivi, mettendo costantemente in dubbio la capacità di giudizio o di decisione. Questo meccanismo, protratto nel tempo, destabilizza una persona fino a distruggerla e senza che chi le sta intorno possa accorgersene ed intervenire. La vittima di violenza psicologica è paralizzata, confusa, sente il dolore, la sofferenza emotiva, ma non riconosce l’aggressione subita. Il problema relativo alla violenza psicologica, infatti, è relativo al riconoscerla, alla consapevolezza di esserne vittime. --Le donne sottoposte costantemente a questo clima ‘vacillano’, cominciano a dubitare dei propri pensieri, dei propri sentimenti, si sentono sempre in colpa, inadeguate e spesso si isolano o vengono isolate perché assumono comportamenti non spontanei, scontrosi, lamentosi o ossessivi con le persone che intorno non comprendono e giudicano negativamente. Così la donna resta isolata, senza appoggio. --Occorre chiedere aiuto, occorre venire aiutati da esperti. I segnali di malessere si possono individuare nei disturbi del sonno, nell’irritabilità, nell’insorgenza frequente di mal di testa e cefalee, nei disturbi gastrointestinali o in un continuo stato di apprensione, di tensione costate e di ansia. Questi possono essere considerati segnali di disagio di cui è opportuno verificare l’origine per poter prendere consapevolezza delle aggressioni subite, comprendere perché le si è assorbite e ridefinire i propri limiti di tollerabilità, in modo che non vengano mai più oltrepassati. 3 novembre 2012 Sostienici: reteinterattiva@gmail.com

giovedì 1 novembre 2012

“Nella scuola la speranza di riscatto del Paese"

“È un dramma che chi governa non creda più nella scuola pubblica. Significa pensare che davanti a noi non c’è un futuro che possiamo costruire”. Lei è una preside, è stata un’insegnante, cosa pensa delle discusse norme sulla scuola contenute nella Legge di Stabilità del Governo? Come ne escono gli insegnanti e la scuola pubblica italiana? In generale si ha la percezione che non si creda davvero che una buona scuola è la nostra vera possibilità di riscatto dal presente difficile. E questo è un dramma perché non credere nella scuola significa pensare che non c’è davvero davanti a noi un futuro che possiamo costruire. Diversamente un governo si impegnerebbe moltissimo in un sostegno ragionato alla scuola pubblica. Ragionato perché la crisi c’è e bisogna mettere in atto un’economia della sobrietà dei mezzi. Ma il sottotesto di molte dichiarazioni pubbliche dei nostri ministri ci racconta la convinzione che in fondo i ragazzi abbiano molte colpe. In realtà noi stiamo consegnando loro un mondo pieno di ingiustizie che facciamo finta di non vedere, un mondo che abbiamo costruito noi adulti. Se oggi i ragazzi hanno dei sogni sbagliati, e credo che spesso lo siano, tipo il sogno di essere famosi, di apparire, di essere ricchi e potenti, di non faticare, dobbiamo però dire che questo tipo di sogno lo abbiamo coltivato noi. Adesso si deve far sì che i ragazzi siano capaci di coltivare i loro sogni. E la scuola e la cultura servono a questo. A rendere i figli critici verso i loro padri, a fare meglio di noi. Noi abbiamo permesso cose tremende, e loro non devono farlo. Di quali cambiamenti o risorse necessita la Scuola? Ha bisogno di un contesto di persone che credono nella scuola. Nella scuola pubblica. Abbiamo avuto ministri dell’istruzione in perenne conflitto con gli insegnanti. Ma si può? E poi ci vuole un progetto di scuola che davvero favorisca la mobilità sociale, che non moltiplichi le disuguaglianze. Oggi tutte le ricerche ci dicono che la scuola fa da moltiplicatore delle disuguaglianze sociali. Chi è già bravo, perché viene da famiglie in cui ci sono risorse e cultura, va avanti, gli altri rinunciano. Se la scuola non dà opportunità a tutti, sono sempre i poveri a perdere. Poveri di cultura e di risorse. Ministro Gelmini e Ministro Profumo. Quale dei due è più vicino alla sua idea di Scuola? I tagli del ministro Gelmini sulla scuola sono stati nella sostanza privi di un disegno riconoscibile. Ad esempio è stata colpita la scuola primaria, che era nelle indagini internazionali una scuola di eccellenza, e non la scuola media, che invece risente di una crisi grave ormai da molti anni. Poi ha rivoluzionato i licei, ma anche qui senza che fosse chiaro l’intento. Un esempio: l’abolizione del laboratorio di fisica-chimica nell’indirizzo scientifico sperimentale. Finalmente molte scuole si erano attrezzate e avevano i laboratori, tutte le indicazioni internazionali dicono di favorire la didattica laboratoriale, e invece noi no. Sparito tutto. E poi lo snaturamento degli istituti professionali che con la loro articolazione in 3 anni (per la qualifica) più due (per la maturità) hanno dato per tanto tempo una possibilità a studenti che arrivavano incerti sulle loro capacità, non sicuri di poter continuare la scuola. E poi invece restavano e andavano all’università, o al lavoro ma con una qualifica. Non rimpiango il ministro Gelmini. Il ministro Profumo si è circondato anche di persone che hanno fatto cose splendide per la scuola, penso a Marco Rossi Doria che è sottosegretario. Ma il ministro conosce soprattutto l’università e non sempre ha dato l’impressione di saper difendere la scuola pubblica. Tanti suoi interventi sono stati estemporanei, una volta sull’orario di lavoro, un’altra sui concorsi. La scuola è una realtà delicatissima. I ragazzi sono ‘choosy’ secondo il Ministro del Lavoro Elsa Fornero. Lei che ne ha educati come insegnante moltissimi, ritiene che siano schizzinosi? Ho insegnato in un istituto professionale per venticinque anni, la realtà meno ‘choosy’ che si possa immaginare. I miei studenti lavoravano a partire dalla seconda, e facevano di tutto. Il problema non è questo. Il problema è cosa sognano. Sognano di essere ricchi e famosi. Dovrebbero sognare di essere felici, star bene, migliorare il mondo. Dovrebbero credere di poterlo fare. Come giudica la proposta dell’introduzione nell’ora di religione dell’insegnamento dell’Islam nelle scuole italiane? Amartya Sen ha scritto qualcosa che condivido profondamente: la scuola non può coltivare ed enfatizzare le differenti singole identità. Suona apparentemente bene “scuola cattolica”, “scuola musulmana”, “scuola laica”. Ma se fin da piccoli ci si riconosce esclusivamente o soprattutto in un’unica identità, domani ci aspetta la guerra. Perché non ci si conosce e noi temiamo ciò che non conosciamo. Ciascuno di noi è molte cose insieme, dice Amartya Sen. La scuola deve essere un laboratorio di convivenza delle differenze, perché così si costruisce la società comune.
intervista a Mariapia Veladiano di Mariagloria Fontana Mariapia Veladiano:scrittrice vicentina, teologa e preside, di cui è uscito in questi giorni il secondo atteso romanzo (“Il Tempo è un Dio Breve”, Einaudi) dopo il fortunato esordio con “La vita Accanto” (premio Italo Calvino 2010 e finalista al Premio Strega 2011).---MICROMEGA

martedì 23 ottobre 2012

Quanto lavora un docente italiano?

Pare strano, ma la maggioranza delle persone non del settore lo ignora. Molti sono infatti convinti che l'orario di lavoro del docente coincida con le ore passate in classe. Ma quello è l'orario di docenza, durante il quale l'insegnante si trova fisicamente dentro l'aula. Poi c'è tutto il resto, ovvero il tempo necessario per preparare lezioni e materiali, correggere le verifiche e i compiti, stendere le relazioni per le classi seguite e piani particolareggiati per gli alunni disabili o in difficoltà. Un lavoro spesso immane di preparazione (ci sono docenti che hanno fino a 9 classi di 30 alunni) che il docente svolge di solito a casa, e con mezzi propri (computer, collegamento internet) non perché è un privilegiato, ma perché nelle scuole non esistono strutture dove possa farlo: al contrario dei colleghi di altri paesi, il docente italiano a scuola non ha un suo studio, e nemmeno una scrivania dove lavorare. Grasso che cola se ha un armadietto personale dove poter appoggiare libri e compiti corretti. Ci sono poi i Collegi Docenti e i Consigli di Classe, cui il docente è tenuto a partecipare, e tutta una serie di attività collaterali (un'ora alla settimana di ricevimento genitori, corsi di formazione su vari argomenti) che sono obbligatorie. Contando che per ogni ora di lezione almeno una di preparazione a casa è necessaria, un rapido conto basta a capire che il docente italiano fa già 36 ore alla settimana: sommandoci quelle delle riunioni, si arriva tranquillamente alle 40 ore settimanali che sono lo standard nei contratti di lavoro per i dipendenti. Altro mito tenacissimo è quello che gli insegnanti italiani avrebbero tre mesi di ferie. Anche qua tutto nasce della confusione fra orario di docenza e orario di servizio. Gli alunni finiscono infatti le lezioni ai primi di giugno e stanno a casa fino a metà settembre. I docenti no. Alle medie sono in servizio fino al 30 giugno, data in cui finiscono gli esami di terza, alle superiori vanno avanti almeno fino a metà luglio, perché ci sono gli esami di maturità. Tutti tornano in servizio il 1 settembre, perché cominciano le riunioni per preparare il nuovo anno, ma chi ha esami di riparazione alle superiori inizia ancora prima, a fine agosto.
I docenti italiani lavorano più o meno dei colleghi europei? Comparando gli orari e le vacanze, questa gran differenza non emerge. In Europa, in media, si fanno 18 ore di lezione frontale; i paesi in cui apparentemente se ne fanno di più, come la Germania, contano però ore di 45 minuti, non di 60, come noi; i giorni di vacanze sono gli stessi, anche se distribuiti diversamente nel corso dell'anno. L'Espresso

lunedì 22 ottobre 2012

Il mercato degli eletti

La lunga mano dei boss sul voto nell'Italia delle elezioni inquinate Negli ultimi due anni il numero di inchieste su politici eletti grazie all'appoggio dei clan è cresciuto in maniera esponenziale. Aumentano i comuni sciolti per mafia, soprattutto al nord. Coinvolti assessori, consiglieri comunali e provinciali oltre a ex presidenti di Regione, accusati di essere il tramite tra istituzioni e malaffare LA MAPPA Ecco dove le cosche controllano i seggi In una Regione su due le Procure indagano su presunte compravendite di pacchetti di voti da parte della malavita organizzata. Dal caso di Nicola Cosentino in Campania fino agli scandali in Liguria passando attraverso l'operazione Minotauro in Piemonte Dai voti facili ai business milionari "Così la politica si è venduta ai clan" Nelle carte dell'inchiesta sull'ex assessore alla casa della Regione Lombardia Domenico Zambetti, il patto stato-mafia-politica-affari. Intercettato, il boss Eugenio Costantino confida: "I sindaci qui sono tutti amici nostri...tutti di destra! Non ce n'è uno che non abbiamo aiutato a vincere". Gli inquirenti: "Una volta votavi come ti diceva il boss perchè ti faceva paura, ora lo voti perchè dice: ci guadagnamo tutti" L'ANALISI La Camorra alle urne "I candidati sono come cavalli su cui puntare per farli arrivare al Comune, alla Provincia, al Parlamento..." In questo articolo di Roberto Saviano del febbraio 2011, il racconto di Maurizio Prestieri, il boss di Secondigliano che ha deciso di collaborare con la giustizia di ROBERTO SAVIANO LE TECNICHE Tutti i trucchi elettorali Cambiano i sistemi elettorali e le organizzazioni criminali rivedono il modo per condizionarne i risultati. L'elettore che vuole vendere la sua preferenza sa già a chi rivolgersi e cosa fare. Non solo la foto con il telefonino ma anche lo scambio della scheda già compilata La Repubblica di PIERO COLAPRICO, RICCARDO DI GRIGOLI e ANDREA PUNZO con un'analisi di ROBERTO SAVIANO

domenica 21 ottobre 2012

RECESSIONE CULTURALE

Si parla tanto di un Paese in recessione economica, questo è indubbiamente vero, ma della manifesta RECESSIONE CULTURALE, si parla poco, e , cosa ancora più grave, si fa molto poco per arginarla. Infatti, i continui tagli delle risorse economiche ed umane alla scuola, all'università, alla ricerca ed alle iniziative artistico- culturali, sono l'esempio più significativo. Del resto, a buona parte della classe politica, non conviene che il popolo migliori il proprio livello di conoscenze e competenze, con l'ignoranza si governa senza problemi ed è più facile trovare delle schiere di creduloni, che con il miraggio di facili guadagni e favori, votano chi ritengono più adatto ad assecondare il loro desiderio di evadere e raggirare le regole democratiche. Naturalmente i più adatti ed esperti del come fare, sono indubbiamente i disonesti e per questo che tanti preferiscono una classe politica opportunista e, a volte, anche affiliata alle cosche mafiose, perchè costoro garantiscono un sistema di illegalità, impunità, facili ed illeciti guadagni. Bisogna porre fine a questa deriva culturale, non può, il nostro Paese essere preda di affaristi e malviventi, la risposta deve essere una RIVOLUZIONE CULTURALE. Per raggiungere tale obiettivo è necessario migliorare il livello culturale,economico e sociale della popolazione italiana. Le risorse sono abbondanti nel Paese, basta aprire spazi di partecipazione sociale, incrementare l'economia, la scuola, l'università e la ricerca, migliorare la qualità dell'offerta artistica e comunicativa, e, cosa importante, non consentire a soggetti di dubbia integrità morale, di accedere alla gestione dello Stato e di tutte le strutture che devono tutelare il bene comune. Bisogna impegnarsi tutti in prima persona, ognuno nel proprio ambito lavorativo e ambientale, perchè senza una presa di coscienza collettiva , cambiare e migliorare lo stato delle cose non sarà possibile. PIERA REPICI
Roma,21/10/2012

sabato 20 ottobre 2012

Donne uccise un dramma della modernità

Carmela Petrucci, liceale, diciassette anni, palermitana, si frappone fra la sorella e il suo omicida di 22 anni. Cerca di salvarla dal furore dell’ex fidanzato respinto. Le hanno trovate una accanto all’altra, le ragazze, riverse nell’androne di casa al ritorno da scuola. -E’ la centounesima vittima di femminicidio nell’Italia del 2012. Femminicidio, parola una volta lontana, usata per le feroci esecuzioni di donne da parte dei trafficanti di droga messicani di Ciudad Juarez, è oggi entrata nel nostro lessico di europei sempre più incerti di noi stessi e della forza dei nostri valori. -Non è accaduto per bizzarria ed esotismo, ma per dolore, per sdegno, per sottolineare che viene un momento in cui ciò che non si voleva guardare diventa un’ossessione della coscienza, che ciò che ad alcuni pareva sopportabile – uno dei tanti dolorosi dettagli della cronaca – prende il corpo di un’emergenza democratica, di una ferita al patto sociale che ci unisce. -Infatti, molto spesso, non è di arretratezza che si tratta. La storia delle due sorelle palermitane somiglia da vicino, non solo geograficamente, a quella della catanese Stefania Noce morta il 27 dicembre 2011. Ventiquattro anni, brillante studentessa di Psicologia, femminista militante, battagliera nel movimento degli studenti. Il ragazzo che la uccise, dopo un amore finito, non seppe dire altro che una frase pesante come un macigno: «L’amavo più della sua vita». E’ la contiguità, l’ossessione del possesso, la perversione blasfema dell’amore a fare di un uomo un assassino. Raramente si uccide una sconosciuta. Su una donna un uomo, un particolare uomo, proietta ciò che ha deciso di non essere: è da lei che pretende e si aspetta l’assoluta dedizione. Che può andare oltre la vita dell’altra, come racconta il dialogo teatrale di Cristina Comencini, che prende le mosse proprio dal grande vuoto che buca l’anima di molti ragazzi e che a Torino di recente, alle Officine Grandi Riparazioni, ha commosso tanti spettatori . -I dati, le statistiche sono arnesi difficili da maneggiare. Tuttavia non credo ci sia un caso italiano, una ferita che riguarda solo noi, o principalmente noi. E’ un dramma della modernità, però, non dell’arretratezza, o meglio non solo dell’arretratezza. Su questo non possiamo darci consolazioni facili. Una zona buia dell’anima convive con l’epoca delle Cancelliere e delle Segretarie di Stato donna: sembra ignorarle e affondare nella preistoria. Nel 2009 in Finlandia, Danimarca e Norvegia ci sono state in media sette donne uccise ogni milione di cittadine. Un po’ di più che in Italia: da noi 6,57. Forse alcolismo e solitudine sono più potenti dell’emancipazione. -Negli anni fulgenti del primo Zapatero in Spagna (2004-2005) ci fu, invece, un calo significativo della violenza contro le donne: lui ci aveva creduto, aveva speso denari ed energie per la prevenzione, l’educazione, la promozione brillante di quel tipo di autorevolezza femminile che crede nel sostegno alle altre e che sola può far da argine al peggio. -Dunque la politica non è impotente. Se vuole. Le volontarie del «Telefono rosa», esaminando un campione di mille e cinquecento telefonate, hanno scoperto che il novanta per cento delle donne che le chiamano perché già colpite, picchiate, a rischio di vita, non denunciano il loro persecutore. I tempi del procedimento sono troppo lunghi, durano in media cinque anni, e nel frattempo la protezione per loro e per i loro bambini non è tale da rassicurarle. Qualcosa potrebbe essere cambiato. I centri di sostegno contro la violenza potrebbero essere rafforzati e infittiti. -E’ quello su cui preme anche la comunità internazionale, con la Convenzione di Istanbul che impone agli Stati più protezione per le vittime, sanzioni penali per i matrimoni forzati, robuste strategie di prevenzione. -La nostra ministra delle Pari opportunità Elsa Fornero l’ha firmata il 27 settembre scorso. Peccato che nella seduta del 20 settembre, in cui il Senato avrebbe dovuto dare solennità al suo mandato, la discussione fu sospesa alla maniera di una riunione di condominio: il vicepresidente Domenico Nania era sparito, Rosi Mauro non poteva perdere un aereo e il presidente Schifani tardava a farsi vivo in aula. Non era mai accaduto nella storia della Repubblica. -Brutto segno di un brutto Parlamento. Fornero è decisa a tornare alla carica il venticinque novembre prossimo, giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Intende chiedere la ratifica della Convenzione e presentare il suo programma in materia di violenza sulle donne. Non disperiamo. La politica qualche volta può anche essere una cosa seria. mariella gramaglia---La Stampa

mercoledì 17 ottobre 2012

Grazia Deledda non si legge a scuola.

"Grazia Deledda è una donna che rappresenta le scrittrici e gli scrittori sardi che hanno reso grande la letteratura italiana. Noi vogliamo che i giovani la conoscano e la studino per il suo importante contributo culturale e che gli insegnanti delle nostre figlie e dei nostri figli la inseriscano nei programmi didattici." L'invito dell'Associazione Donne di carta a far circolare e a sostenere un Appello contro una discriminazione che colpisce Grazia Deledda, che è stata anche Premio Nobel L'Associazione Donne di carta sostiene questo APPELLO e sottolinea che le persone libro dell'Associazione Donne di carta, circa 100, sparse in 15 città italiane, portano nel proprio repertorio a memoria ben più del 60% di libri scritti da donne, una realtà ben diversa da quella che il Ministero considera rilevante per l'educazione linguistica e letteraria dei giovani e rappresentativa della qualità culturale di questo Paese. E tra le donne che scrivono, Grazia Deledda, ovviamente, è più che presente - e non con un solo libro. Per libera scelta di lettori e lettrici che nella vita sono insegnanti, bibliotecari, editori, operatori culturali e quegli stessi giovani (uomini e donne) che si vorrebbe privare di modelli culturali diversificati contravvenendo a quel sacrosanto principio della bibliodiversità che garantisce la crescita di un pensiero critico, libero e indipendente soprattutto dal monopolio dell'omologazione culturale e sessista. A nome dei soci, sottoscriviamo l'Appello e invitiamo a fare altrettanto, con una mail di sostegno a: graziadeledda.snoq@gmail.com APPELLO "Al Presidente della Repubblica On. Giorgio Napolitano Al Ministro della Pubblica Istruzione On. Francesco Profumo Al Ministro delle Pari Opportunità On. Elsa Fornero Nel programma di letteratura italiana del prossimo concorso per insegnanti della scuola pubblica sono presenti 35 scrittori maschi e una sola donna, Elsa Morante. Tra i nomi possibili della Letteratura Italiana, è assente una delle più grandi scrittrici italiane del XX secolo, il premio Nobel Grazia Deledda, peraltro ampiamente trascurata nei programmi scolastici curriculari. Esiste una cecità selettiva verso la rappresentatività femminile e verso i meriti delle donne che evidentemente colpisce anche il Ministero della Pubblica Istruzione. leggiamo ancora che le donne non dovrebbero chiedere il 50% di presenze in tutti i luoghi decisionali, ma chiedere invece il riconoscimento del “merito”. Eppure, per questa donna sarda, neppure il premio Nobel è “merito” sufficiente.
Grazie a chi l'ha scritto. inserito da Sandra Giuliani---NOI DONNE http://liberos.it/notizie/la-donna-che-non-doveva-scrivere/258 (17 Ottobre 2012)

lunedì 15 ottobre 2012

Consultorio? Sì, grazie!

I consultori rappresentano un fondamentale presidio sul territorio a tutela della salute della donna e anche la recente relazione del ministero della Salute sull'Ivg riafferma la loro centralità per la prevenzione e riduzione degli aborti. Eppure sono molte le strutture a rischio chiusura.
Il rapporto del ministro Balduzzi sull'andamento dell'interruzione volontaria della gravidanza in Italia conferma quello che chi lavora nei consultori sa bene da sempre: la presenza dei consultori riduce il ricorso all'IVG perchè aumenta il livello di prevenzione con l'informazione, la somministrazione e il controllo dei sistemi contraccettivi e perchè consente alle donne e alle coppie di prendere coscienza della necessità di tutelare la propria salute e di scegliere in sicurezza quando e come avere una gravidanza. Nonostante il monitoraggio sistematico dei dati confermi anno dopo anno questa realtà e dimostri il risparmio - non solo in termini economici - che un investimento su questi servizi determinerebbe per tutelare la salute della donna, della coppia, del bambino, i consultori vengono inspiegabilmente emarginati all'interno delle Asl e ingiustamente attaccati da progetti legislativi regionali e Piani Famiglia governativi che ne mettono in discussione il valore e la necessità, attribuendo loro valenze ideologiche destituite di qualsiasi fondamento. A Roma e nel Lazio è un continuo progettare, e purtroppo anche realizzare, chiusure e accorpamenti di sedi consultoriali da parte delle Asl, non considerando che il consultorio per definizione deve essere un servizio diffuso capillarmente sul territorio, perchè solo così potrebbe garantire interventi di "offerta attiva" su tutte le tematiche relative al Percorso Nascita, alla contraccezione, alla salute sessuale e riproduttiva, alla prevenzione dei tumori femminili ... Arrivano continuamente alla Consulta dei consultori di Roma segnalazioni di utenti preoccupate dalle "voci" che fanno temere la perdita di un riferimento per la salute come il consultorio, la cui presenza è da tempo diventata significativa nel proprio quartiere; qualche mese fa ha riguardato i consultori di via Casilina e di via Spencer nella Roma C, poi quelli di piazza dei Mirti e via Rubelia della Roma B, le sedi dei CCFF di piazza Castellani, di via Salaria e di via Atto Tigri della Roma A, e adesso c'è grande fermento per la chiusura annunciata di via Manfredonia, presidio consultoriale frequentatissimo, nel quale si effettuano anche le vaccinazioni obbligatorie ai bambini. Per i cittadini di un quartiere come Quarticciolo perdere il consultorio di zona significherebbe non avere nessun riferimento ed essere costretti a spostarsi in località distanti e difficilmente raggiungibili. Leggendo la relazione del ministro Balduzzi, così piena di affermazioni lusinghiere sull'efficacia del modello di intervento consultoriale, affermazioni che discendono non dall'opinione del ministro ma dall'elaborazione dei dati in possesso del Ministero, viene da chiedersi perchè non se ne traggano le logiche conseguenze e non si dia il via ad un piano nazionale che porti a regime il numero dei consultori e la completezza delle équipe, come avviene per i medici di base. Le risorse scarseggiano, lo sappiamo, ma partendo dal non sopprimere i consultori che esistono e delineando una direzione di incremento, si potrebbe progressivamente dotare il Paese di una rete completa di consultori che, come più volte sottolineato - essendo servizi a bassa soglia e a basso costo - consentirebbero una reale tutela della salute sessuale e riproduttiva, facilitando gli accessi delle donne e degli uomini del territorio e gli interventi di "offerta attiva" da parte degli operatori. di Pina Adorno**Consulta Cittadina Permanente dei Consultori Familiari di Roma MICROMEGA (15 ottobre 2012)

‘Niente ci fu’: storia di Franca Viola

Il libro di Beatrice Monroy racconta la vicenda di una 17enne che, nel dicembre del '65, viene rapita e tenuta segregata per una settimana da un mafiosetto locale. Una "fuitina" forzata con tanto di violenza sessuale. A liberarla, il padre che finge di acconsentire allo sposalizio dei due. Ma la ragazza, con coraggio, rifiuterà di sposarlo infrangendo una convenzione sociale. La cosiddetta ‘fuitina’ è una fuga d’amore, ma anche un rapimento con stupro, che si trasforma in matrimonio per un’usanza ancora oggi molto diffusa in Sicilia. I due ragazzi ‘fuggono insieme’, più o meno consensualmente, quando la loro relazione è osteggiata dalle famiglie o solo perché lo vuole la tradizione. A cose fatte, le famiglie accettano o impongono il matrimonio per rimediare alla vergogna della figlia non più vergine. Per senso d’onore il figlio farà la sua parte, conducendo la ragazza all’altare. Il 26 dicembre del 1965 una giovane semplice, di nome Franca, si contrappose a questo sistema di uomini e di leggi fatte da uomini, così come fecero Peppino Impastato e Danilo Dolci chiamando per nome i mafiosi e denunciando gli intrecci fra mafia e politica e pagandola molto cara.
Appena diciassettenne, Franca Viola, dopo avere rifiutato le avances di un innamorato, viene rapita mentre si trova nella sua casa di Alcamo. Filippo Melodia, rampollo della famiglia mafiosa dei Rimi, la tiene segregata e la violenta per una settimana intera. L’epilogo sarebbe stato il matrimonio riparatore, previsto dalla legge italiana come ‘ristoro’ in caso di violenza sessuale. Il padre di Franca invece finge di accettare un accordo per liberare la figlia, avvisa i carabinieri e fa arrestare Melodia. Franca Viola non volle in alcun modo acconsentire alle nozze previste , creando un precedente seguito da molte donne. E’ così che diventa un’icona del movimento femminista italiano. La legge che tutelava l’autore della violenza, pur avendo innescato un rovente dibattito politico e indignato l’opinione pubblica, sarà modificata solo nel 1981, con la cancellazione del matrimonio riparatore in caso di violenza sessuale . “’Niente ci fu’ è un modo di dire delle madri siciliane: quando i figli si fanno male si fa ricorso a questa espressione per minimizzare – spiega Beatrice Monroy. In generale, se si tratta di qualcosa di serio, è l’autocensura che caratterizza una certa cultura femminile siciliana del non-detto”. Dopo il can can mediatico sviluppatosi attorno alla vicenda, Franca Viola è uscita di scena, avvolta nel silenzio. “Dove sono finite le sue parole? – chiede l’autrice – Ho cercato di dare voce a lei e a tante altre donne vittime di violenza, diventate ormai testimoni mute . La violenza sulle donne assume connotati specifici perché condizionata dalla presenza della mafia, il cui primo comandamento è l’omertà”. Perchè, conclude Monroy, “non è una circostanza fortuita quella che vede fra i protagonisti della vicenda uomini di famiglie mafiose. Come andarono veramente le cose? Non è un caso che su questo sia calata una cortina di silenzio”. di Danila Giardina | 13 ottobre 2012 Il Fatto Quotidiano > Donne di Fatto >

giovedì 11 ottobre 2012

L'Agorà delle donne: I bambini ci guardano

L'Agorà delle donne: I bambini ci guardano: Mi è venuto in mente il titolo di quel vecchio film, stamattina, appena sveglia, mentre guardavo il video choc del bambino portato via d...

I bambini ci guardano

Mi è venuto in mente il titolo di quel vecchio film, stamattina, appena sveglia, mentre guardavo il video choc del bambino portato via di peso dai poliziotti, vittima, fra l’altro di una faida assurda fra genitori (e mi scuso con i genitori per usare questo titolo inopportunamente per chi non lo merita) che se lo contendono. L’orrore di quelle scene, lo strazio di quelle implorazioni, la drammaticità hanno un qualcosa di irreale. Come nemmeno in un film girato in un luogo di guerra dove non esistono più leggi, tutele. Dove l’umanità è cancellata dall’abominio di cui sanno diventare protagonisti gli uomini. Sono persino stanca di ripetere quanto tutto ciò sia segno di un paese allo sbando totale. Moralmente e eticamente. Dico solo che ci sono dei rappresentanti delle forze dell’ordine che si sono macchiati di un gesto esecrabile, imperdonabile e ingiustificabile. Non ci sono decisioni o ordini di giudici che permettano a chicchessia di usare cotanta violenza su un bambino. Quei rappresentanti delle forze dell’ordine, pagati per “difendere” e tutelare i cittadini, hanno tradito, ancora una volta, il loro ruolo. E pertanto vanno licenziati. Come sarebbe licenziato, in un mondo normale, chiunque si fosse macchiato di un tradimento cosi’ palese e orrendo verso i principi più alti del ruolo che è chiamato a svolgere. I genitori poi. Dovrebbero non avere nemmeno la possibilità di chiamare figlio questo figlio che hanno violentato arrivando a questo. Loro la responsabilità principale. Qualsiasi sia la loro storia che non conosco e non mi interessa. Quel figlio loro lo hanno violentato. Spero qualcuno abbia abbracciato in silenzio quel bambino. Per dirgli che, quando loro ci guardano, a volte, sebbene raramente, riusciamo a ricordarci di essere umani. di Angela Vitaliano | 11 ottobre 2012--- Il Fatto Quotidiano

martedì 9 ottobre 2012

I MEDIOCRI E IL MALAFFARE

La sorpresa e il disgusto verso l'accavallarsi di fatti che portano allo scoperto comportamenti al limite del penale, non è dovuto tanto all'evidenza del malaffare e alla sua entità, quanto piuttosto al malessere c he prende di fronte alla sfrontatezza con cui queste fattispecie si sono generate e protratte, al silenzio con cui sono state coperte e alla impudenza con cui il tessuto politico che le ha prodotte pretende l'immunità, impegnandosi in aleatorie promesse di palingenesi. Se si guarda bene l'andamento ciclico di queste emersioni del marcio, quello che desta sorpresa è la facilità con cui la gente dimentica ed è disponibile "a passarci sopra" rivelando il lato più drammatico della questione: la corruzione 'intrinseca' che anni e anni di soprusi, arricchimenti impropri e assalto a ogni elementare regola di convivenza, hanno indotto nella testa delle persone, come mitridatizzate da un veleno insidioso e silente che ha sconvolto parametri di giudizio e valori civili di fondo. Se tutto diviene possibile per chi detiene il potere, anche per chi è titolare di un potere minimo qualunque, o vi aspira giustificato dalle qualità dei vertici di organismi o istituzioni, troverà naturale comportarsi allo stesso modo: mettere i propri interessi, anche quelli meno confessabili, in cima alle priorità da perseguire, dando per scontato che "tanto così fan tutti", e dunque furbizia e giuste appartenenze garantiranno l'impunità. C'è poi un'altra questione che concorre a formare questo groviglio apparentemente inestricabile di avvitamenti al basso, ed è data dalla penosissima mediocrità che si è andata consolidando negli strati intermedi degli organismi di rappresentanza e nelle stesse istituzioni, come portato inevitabile dello scadimento dei primi livelli in posizione di responsabilità, dello smantellamento di ideali e passioni sociali, della banalizzazione mediatica e comunicativa: tutte derive che, in nome di una occupazione ostinata e imbelle dei gradini alti del potere, hanno spinto a selezionare incapaci e mezze tacche, purché fedeli, manovrabili e, possibilmente, di bella presenza. La melassa intermedia è persino più pericolosa, alla lunga, della gaglioffaggine o della incapacità dei capi, perché, quand'anche le periodiche purghe della magistratura riescano a liberarci di qualcuno di questi, mettendo magari nell'angolo anche altri pari grado assimilabili, tutti quelli che, più in basso, hanno beneficiato del sistema, e si sono distribuiti nei gangli operativi delle diverse istituzioni, continueranno a inquinare il campo, a riprodurre meccanismi e modelli operativi nefasti, maturando oltretutto la convinzione che, passata la buriana, tutto potrà continuare come prima. Una società di questo tipo avrebbe bisogno di una riforma profonda e di uno sfoltimento deciso di tutte le strutture di sottogoverno delle istituzioni nazionali e territoriali. Provate solo a pensare al settore sanitario, alla occupazione faziosa e molto spesso arrogante e incompetente in egual misura, con cui propaggini politiche, dalle pratiche devozionali ondivaghe e compromissorie, tutelano l'accesso alla salute dei cittadini tutelando in realtà interessi altri, carriere primariali dubbie per meriti e capacità, un sottobosco clientelare variegato e affamato. O anche alla distribuzione di incarichi per via amicale, su vincoli contratti in contesti che sarebbe persino vergognoso ricordare, se la vergogna fosse ancora virtù civile praticabile, con la conseguenza inevitabile di inefficienze di cui un paese all'onor del mondo avrebbe tutto il diritto di disfarsi, mentre è costretto a subire invece gli sberleffi dei beneficiari e gli "sfottò" increduli degli stranieri che ci guardano ormai come marziani incomprensibili. Provate ad aggiungerci l'ostinazione con cui la pubblica amministrazione tenta di riprodurre se stessa, i suoi vizi burocratici fonte e tutela della inefficienza più patetica, se non fosse anche ridicola, spesso, e irritante quasi sempre, con gli organismi di controllo sempre pronti a denunciare a posteriori, non volendosi accorgere che sono i processi che alimentano le disfunzioni; quegli stessi processi che garantiscono la loro permanenza e il loro potere. Nel regno delle mediocrità tutelate e benedette, anche la chiesa fa la sua parte, con esempi che sarebbe stato difficile immaginare tempo addietro, rafforzando la convinzione di molti che, anche su questo versante, un perdono non sia difficile trovarlo, avendo qualcosa da scambiare che sia apparentato al sacro, o a quello che come tale sia possibile contrabbandare. Rispetto a un quadro così degradato non ha molto senso perdersi solo in analisi sociologiche magari raffinate, in pensose dissertazioni culturali, in distinguo e accorte collocazioni su confini mobili di un buon senso senza nerbo. Molti autorevoli commentatori, e qualche guru improvvisato, ci hanno anestetizzato con queste pratiche asettiche: pii esercizi interpretativi ad uso di anime belle. Noi dobbiamo qualcosa di più dignitoso ai nostri figli e ai tanti giovani che maturano disorientamento e disprezzo. Vale la pena ormai non essere più indulgenti né corrivi. I mediocri vanno additati al pubblico disprezzo. Come meritano. Pier Luigi Celli--Pubblicato: 09/10/2012 09:00--su HuffPost

Hanno distrutto tutto davanti agli occhi dei bambini

Macerie e lacrime dei bambini al campo nomadi di Tor de’ Cenci In merito allo sgombero del campo nomadi della Pontina, la Caritas e la Comunità di Sant’Egidio hanno congiuntamente denunciato “il modo violento e incivile con cui è stato urlato agli abitanti del campo nomadi di andare via e la fretta con cui si è dato seguito allo sgombero senza programmare pronte alternative dignitose”. “Ciò che colpisce,” è scritto in un comunicato-testimonianza di entrambe le organizzazioni cattoliche, “è il trattamento riservato ai minori, di fronte ai quali è stato inscenato uno spettacolo non degno di un'amministrazione di un Paese civile, capitale di uno stato fondatore dell'UE e patria del diritto. Ciò a cui hanno assistito in prima persona il Direttore della Caritas di Roma, monsignor Enrico Feroci, e i volontari della Comunità di Sant’Egidio presenti al campo è qualcosa che non appartiene alla nostra cultura e al rispetto dei diritti umani e del fanciullo, che vorremmo non appartenesse alla nostra amata città di Roma. Abbiamo un’amara certezza: se ci fossero stati altri bambini in quel campo invece dei bambini Rom le modalità, le attenzioni, il linguaggio, sarebbero stati altri.” Le ruspe hanno distrutto impietosamente uno dopo l’altro i circa 50 container collocati lì dalle precedenti amministrazioni e pagati con soldi pubblici. Hanno distrutto tutto davanti agli occhi dei bambini che in quelle “case” avevano dormito fino ad un ora prima, esterrefatti, arrabbiati, atterriti, piangenti. Si erano preparati per andare a scuola. Il pulmino li attendeva poco distante. E’ stata invece una giornata molto diversa dalle aspettative. Giornata da dimenticare che al contrario resterà indelebile nei loro cuori, negli incubi e nella percezione fortemente negativa delle istituzioni e dei cittadini italiani e in particolare romani. “Il pianto di quei bambini,” segnalano Caritas e Sant’Egidio, “ è un macigno sulla coscienza di chi ha voluto e realizzato lo sgombero in questo modo indegno di una città considerata per secoli communis patria”. Anche Amnesty critica lo sgombero avvenuto “in violazione degli standard internazionali sugli sgomberi”. Su twitter Amnesty Italia ha scritto: “Per i rom di Tor de Cenci l'alternativa è un campo mono-etnico, isolato, recintato e sorvegliato. Questa è segregazione etnica". I Rom sono stati trasferiti in un centro di accoglienza allestito in modo provvisorio e successivamente verranno accompagnati nel campo di Castel Romano, sulla via Pontina, che già registra più di 900 residenti precari. La notizia ha fatto il giro del mondo e come al solito la Capitale, come avviene da tempo, ne è uscita “nera”. Prima la Polverini con la grottesca sprecopoli regionale targata “Er Batman” e consegnata allo squallore delle cronache dall’indimenticabile immagine della festa dei maiali targata onorevole De Romanis. Poi Alemanno, il sindaco della Città eterna che la mattina del 28 settembre ha mandato una spedizione di vigili urbani a far brutalmente piazza pulita del campo nomadi di Tor de’ Cenci. L’ultima settimana di settembre ha visto il volto senza maschera e la debacle di una destra che fa male al Paese. Paolo Gatto---NOI DONNE

domenica 7 ottobre 2012

Piccole ricette di bellezza quotidiana

Volevo scrivere della bellezza, la bellezza facilitatore di felicità, la bellezza che è ovunque ma esplode nella natura, nell'arte, nell'architettura. Ma non trovavo il necessario aggancio con l'attualità, perlomeno non un link fluido, armonioso, tutti troppo macchinosi e quindi mi dibattevo insoddisfatta. E poi, improvvisamente, un pomeriggio, dopo l'ennesima orgia di immagini di maiali e mostri di ogni colore e l'ultima lettura di cronache, nonostante tutto, inimmaginabili di sprechi ruberie e soprusi, ho sentito disperatamente il bisogno di andarmi ad affogare in qualche posto che mi levasse il fiato e che mi confondesse i sensi per levarmi dagli occhi quelle immagini e dalla testa quelle parole. Sono uscita di casa con il mio cane e ho raggiunto Villa Doria Pamphili, a Roma, mancavano un paio d'ore al tramonto, ma il sole era già basso e la luce filtrava attraverso i rami degli gli alberi, c'era gente, la gente che c'è la domenica nei parchi: bambini che giocano a pallone, ragazzi sdraiati sull'erba a parlare, famiglie, anziani che passeggiano e runners di ogni età. Mi sono sembrati tutti reali, veri e mediamente felici lontani un milione di anni luce da quell'umanità imbestialita fotografata da tv e giornali da cui ero scappata almeno per qualche ora. La passeggiata è continuata, ho il mio percorso abituale nella villa, quello che faccio quando corro, ma questa volta non mi sono concentrata, ho lasciato andare gambe e pensieri e mi sono ritrovata in angoli sconosciuti ad osservare piante mai viste e piano mi sono rilassata, il passo è diventato più sciolto, il respiro lento e più consapevole, le cose intorno hanno ripreso un aspetto meno inquietante e io mi sono riappropriata dello spazio e del momento in cui mi trovavo. Aveva funzionato. Ma sapevo che non sarebbe bastato, non quel giorno. Siamo uscite dalla villa, il mio cane ed io e siamo scese verso San Pietro in Montorio correndo per arrivare prima del buio, ci siamo intrufolate nella chiesa (in effetti il cane si è intrufolato), raggiunto il chiostro e quasi stramazzate davanti allo stupefacente tempietto del Bramante. Lei stramazzata per la corsa, io per la meraviglia. Erano molti anni che non lo visitavo, imperdonabile, vista la ridicola distanza da casa, ma, si sa che va così. Se la perfezione nelle cose umane esiste, beh, era lì, davanti ai miei occhi. "...un tempio tondo, di travertino, del quale non può di proporzione, ordine e varietà immaginarsi e di grazia il più garbato e di meglio inteso...". Parola di Vasari. In effetti, questo capolavoro, stupisce, rispetto ad architetture più grandiose e titolate, per l'armonia assoluta delle forme e le proporzioni perfette che emozionano al primo sguardo. Anche l'infelice collocazione del tempietto, all'interno di un angusto cortile, differente rispetto al progetto originario del Bramante, ne amplifica l'impatto: hai la sensazione della scoperta di un tesoro nascosto e inaspettato. La bellezza perfetta di questo piccolo, soltanto nelle dimensioni, capolavoro architettonico fa vibrare di felicità. Siamo tornate a casa stanche ma felici la mia piccola Ofelia ed io, pronte ad affrontare, senza rimanerne schiantate, qualsiasi tg. Vorrei chiudere suggerendo un piccolissimo esperimento: la mattina, con il caffè e prima di qualunque altra cosa, ma soprattutto prima della lettura dei giornali, provate una poesia, magari breve, pochi versi, va bene tutto, da Neruda a Carver: tutta un'altra giornata! Paola Niolu----- l'HuffPost
Architetto

sabato 6 ottobre 2012

LE REGOLE ELEMENTARI DELLA BUONA POLITICA

Le elezioni si avvicinano e sappiamo tutti che non basta cambiare la legge elettorale. Per uscire dalla crisi è necessario ricostruire il tessuto dei valori e dell'etica tornando a credere nella cultura del lavoro che vince l'imbroglio e la corruzione. Si tratta di un processo lungo e faticoso in cui devono impegnarsi la famiglia, la chiesa, le istituzioni, le associazioni, la scuola, la politica. All'Italia adesso servono secoli di persone per bene. Ma, se le persone per bene hanno paura e restano fuori dalla politica, ci sarà solo spazio per la corruzione e la disperazione. In periodi aberranti come quello che stiamo vivendo, bisogna ripartire. Riscriviamo adesso, subito - e il mio è un monito rivolto al governo tecnico - le regole della politica e rispettiamole. Tutti.
Solo per fare qualche esempio, che spero non risulti offensivo nella sua semplicità, basata però su criteri manageriali, sottolineo che un buon amministratore deve porre a se stesso e agli altri obiettivi chiari, raggiungibili e misurabili. PRIMA REGOLA. Ridurre sotto i tremila euro la retribuzione dei parlamentari garantirebbe alla classe politica un trattamento economico dignitoso e nello stesso tempo eliminerebbe i privilegi della casta e la corsa alle poltrone. SECONDA REGOLA. Tracciare le presenze di parlamentari, consiglieri, etc., attraverso l'utilizzo del badge, come tutti i dipendenti della pubblica amministrazione, renderebbe la politica un mestiere come gli altri, ambìto non in quanto latore di privilegi, ma come missione a servizio dei cittadini e della società. TERZA REGOLA. Monitorare secondo criteri misurabili i risultati del loro operato e digitalizzare i dati rendendoli consultabili da tutti i cittadini migliorerebbe il controllo diffuso da parte della società dell'operato politico e favorirebbe la condanna pubblica dei comportamenti non conformi. QUARTA REGOLA. Limitare il numero di consiglieri, parlamentari, senatori, portaborse costituirebbe un atto di rispetto nei confronti, ad esempio, di chi in questi giorni sta occupando l'ILVA di Taranto ed è posto davanti al dramma di scegliere se morire di malattia a causa di una fabbrica o di fame senza il lavoro. QUINTA REGOLA. Mandare tutti in pensione a settant'anni e limitare la carriera politica a due mandati favorirebbe una salutare alternanza di idee nuove al governo e metterebbe un argine al network delle conoscenze clientelari che alimenta gli scambi di favori protratti nel tempo. SESTA REGOLA. Applicare per tutti il sistema contributivo per la maturazione delle pensioni abolirebbe definitivamente i vitalizi. Mi permetto di ricordare che molti dei nostri politici sono paradossalmente nello stesso tempo i più pagati e i più inqualificabili dal punto di vista del rendimento in termini di buona politica. SETTIMA REGOLA. Sottoporre tutte le spese dell'indotto della politica (viaggi, rappresentanza, comunicazione) a parametri specifici, esistenti in tutte le società, di competenza dell'ente responsabile del controllo, garantirebbe una tracciabilità dei soldi pubblici secondo criteri di trasparenza. Un controllo continuo, costante e capillare degli sprechi si rivelerebbe molto efficace sul lungo termine sia in termini di ottimizzazione dei costi che in termini di educazione civica. OTTAVA REGOLA. Assumere i portaborse per concorso con procedure che ne attestino la professionalità limiterebbe il ricorso alla rete delle relazioni nelle assunzioni garantendo libero accesso a determinate professioni altrimenti irraggiungibili, oltre a maggiori garanzie contrattuali e all'eliminazione di una fetta consistente di occupazione al nero. Mi piacerebbe che qualcuno continuasse questo elenco: le mie sono solo semplici proposte. Le elezioni si avvicinano e sappiamo tutti che non basta cambiare la legge elettorale. Per uscire dalla crisi è necessario ricostruire il tessuto dei valori e dell'etica tornando a credere nella cultura del lavoro che vince l'imbroglio e la corruzione. Si tratta di un processo lungo e faticoso in cui devono impegnarsi la famiglia, la chiesa, le istituzioni, le associazioni, la scuola, la politica. All'Italia adesso servono secoli di persone per bene. Ma, se le persone per bene hanno paura e restano fuori dalla politica, ci sarà solo spazio per la corruzione e la disperazione. Sintesi di un articolo di: Imma Battaglia Presidente dell’Associazione Di’Gay Project

venerdì 5 ottobre 2012

La nostra piccola Guernica

Quando gli ufficiali nazisti videro Guernica, chiesero a Picasso: “Questo l’ha fatto lei?”. E Picasso rispose: “No, questo l’avete fatto voi”. Perfetto. Allo stesso modo se domani si deplorerà che qualcuno abbia messo mano ai forconi, non bisognerà andare a chiederne conto agli incazzati, agli umiliati, ai depredati, agli offesi, ma rivolgersi gentilmente ai signori Piazza, Fiorito, Polverini, Turano e agli altri migliaia e migliaia di campioni che hanno fatto saltare il tappo. Perché alla base di comportamenti tanto smaccatamente e arrogantemente criminali c’è una cosa sola, la vecchia massima del Marchese del Grillo: “Io so’ io e voi nun siete un cazzo”. E noi, che per storia e cultura stiamo dalla parte di chi “nun è un cazzo”, non vorremmo un domani trovarci a deplorare contriti un tragico passare alle vie di fatto, che forse in altri luoghi, in altre latitudini, in altri contesti meno ottenebrati, sarebbe già avvenuto. Posteggiare la Jaguar al posto del disabile, e poi, quando quello chiama i vigili, aspettare che posteggi lui, scendere, procurarsi un oggetto aguzzo, chinarsi dopo aver guardato di qua e di là e tagliargli le gomme. Ecco: se riuscite a immaginare qualcosa di più stupido e cattivo vi danno la tessera onoraria del PdL. Ora, naturalmente prendersela con il bucatore di gomme Antonio Piazza, presidente dell’Aler (edilizia residenziale) di Lecco (PdL, appunto), sembra troppo facile. Troppo facile: la stessa cosa che dicevamo ieri di Franco Fiorito, tritatore di fatture. Troppo facile, bersaglio grosso, come sparare sulle ambulanze. La stessa cosa che potremmo dire dei consiglieri comunali che si inventano una casa lontana per farsi rimborsare i chilometri di viaggio, oppure del farmacista di Sciacca nominato presidente di un parco una settimana prima che l’ente parco venisse istituito. O ancora del deliberare 800.000 euro di spese alle 23.40 del trenta agosto, dieci minuti prima di dimettersi (23.50 dello stesso giorno) come ha fatto il presidente della provincia di Trapani Girolamo Turano (Udc). O ancora, e ancora, e ancora… basta sfogliare la margherita delle cronache locali, il rosario dei piccoli e grandi scandali, la miserabile cronistoria contemporanea del Paese. Certo, il presidente dell’ente di nomina politica che buca le gomme al disabile è imbattibile, sembrerebbe una barzelletta di Berlusconi. E il bello è che è una barzelletta di Berlusconi. Proprio come tutto il resto. Un impasto mefitico e a volte esilarante (se non siete il disabile, il precario espulso per far posto alla fidanzata del presidente, il contribuente truffato, il fruitore di servizio tagliato…) di impunità e arroganza, di giustificazioni puzzolenti, di facce come il culo, che rappresentano il sottoprodotto culturale di vent’anni di cultura dell’impunità. Ora, chi legge questo giornale sa che la facile retorica sulla casta non ci piace. Che il grido ottuso del “non se ne può più”, per quanto innegabile, andrebbe un po’ articolato o almeno declinato politicamente. Che l’enorme vaffanculo grillino non ci convince almeno quanto la trita retorica che recita “né di destra né di sinistra” (che in italiano significa “di destra”). Ma insomma, se il motore dell’incazzatura generica e anche un po’ qualunquista ha ogni giorno a disposizione così tanta benzina, gentilmente fornita dalle gesta di cotanto potere e sottopotere, come fermare la marea? E soprattutto, perché fermarla?
Alessandro Robecchi – da “il manifesto” (4 ottobre 2012)

giovedì 4 ottobre 2012

La corruzione italiana degli “APPARTENENTI”

A chi appartieni?”, chiedevano i nostri nonni, giù nel Salento, per conoscere ascendenze e origini di qualcuno.: La verità è che in Italia, oltre alla corruzione che ha alla base lo scambio di denaro contro favori e benefici politici, aldilà dei risvolti penali che debbono essere rigorosamente puniti, è emersa un’altra forma di corruzione. In questa nuova forma, che chiamerei «corruzione da dipendenza», si privilegia l’appartenenza al gruppo piuttosto che la competenza, anche se nell’”appartenenza”, più che nella “competenza”, si usano sbandierare falsi criteri col lemma ormai di moda della meritocrazia. Questa la premessa: Mi sono ricordata di questa espressione gergale, leggendo Guido Rossi, domenica, sul Sole 24 Ore: “Incompetenti e appartenenti: dove nasce la corruzione”. Il commento del giurista – senatore per la Sinistra Indipendente a cavallo degli anni ’80 e ’90 – riflette sulla corruzione italiana, ne analizza le radici profonde e passa in rassegna i cattivi fertilizzanti. In fondo, si tratta di un’evidenza – quella rilevata da Rossi – talmente incontestabile e ripetutamente provata anche dalle recenti porcate avvenute alla Regione Lazio, da essere diventata poco più di un pleonasmo: c’è forse bisogno di ripetere per la milionesima volta che, in questo Paese, se non appartieni a un gruppo di potere, nelle sue diverse articolazioni rischi persino di non trovare un lavoro, pur avendo dalla propria competenza e preparazione? Accumuliamo scandali che, come bombe, in questi giorni deflagrano provocando scompiglio e rumore, dopo silenzi omertosi e conniventi, ma nessuno osa affrontare la faccia più normale di questa eccezionale corruzione: quella che è diventata cultura, costume, ordinaria amministrazione. Parliamo dell’occupazione militare di società pubbliche, autorità “indipendenti”, istituzioni locali e nazionali, che i partiti politici al governo perpetrano da decenni, al posto di concorrere – come vuole l’art. 49 della Costituzione – “con metodo democratico a determinare la politica nazionale del Paese”. Gruppi di potere, diventati, di fatto, uffici di collocamento paralleli, che operano secondo logiche di affiliazione tipicamente mafiose: dunque, opache, fuori dalle regole, anti-democratiche. Il tema delle regole diventa, dunque, cruciale. Per questo è così difficile da affrontare. E per la stessa ragione non si riesce a trovare un accordo sulla legge elettorale. Scrive Rossi: […] la riforma elettorale [è] il vero strumento per combattere le oligarchie, la corruzione, la lottizzazione, l’illegalità criminale e non e lo svuotamento del processo democratico elettorale. Se non vogliamo che anche la nostra Repubblica vada perduta e che il sogno di una giustizia sociale, la quale risolva le sempre più drammatiche ineguaglianze che ragioni non solo economiche hanno creato, dobbiamo sollecitare il governo tecnico, frutto di uno stato di eccezione, affinché provveda con priorità assoluta alla riforma della legge elettorale, che porti alla diminuzione della corruzione e dei costi della politica e delle vaste illegalità malavitose. L’altro ieri, il dossier presentato da Libera, Legambiente e Avviso Pubblico, “Corruzione, le cifre della tassa occulta che impoverisce ed inquina il paese”, ci ha ricordato che la corruzione ci costa 10 miliardi di euro ogni anno e che il 12 per cento degli italiani si è vista chiedere una tangente negli ultimi 12 mesi. Le associazioni hanno chiesto di approvare rapidamente il disegno di legge anticorruzione. Già sapevamo, però, che nella classifica internazionale, stilata ogni anno da Transparency International, l’Italia è retrocessa al 69° posto su 182 paesi presi in esame, in compagnia del Ghana, con un indice di 3,9 su una scala da 1 a 10, dove 10 indica il livello minimo di corruzione. Forse, è utile aggiungere che la corruzione si combatte prima di tutto aggredendo i patrimoni dei corrotti come indicato, più di trent’anni fa, da Pio La Torre a proposito della mafia. Ed è importante, in questa prospettiva, che i beni ottenuti illecitamente e confiscati, siano restituiti ai cittadini, tradotti in servizi ed impiegati per la cura dei beni comuni. Il rischio, altrimenti, è che i magistrati mettano in carcere altri cento Fiorito, ma che il sistema beffardamente continui a riprodursi tale e quale. Con indosso una testa di porco per non farsi riconoscere. Ilaria Donatio--MICROMEGA

martedì 2 ottobre 2012

Il tiro di Dario Fo all’avaro Picasso

C’è qualcosa che Dario Fo non ha riferito a proposito del suo esilarante “Picasso desnudo”, la lezione-spettacolo tenuta a Milano come introduzione alla mostra del grande pittore. Il nostro Nobel, stando al suo racconto, mentre lavorava alla messinscena si era improvvisamente bloccato. Infatti gli sarebbe venuto in mente che gli eredi di Picasso erano abituati a pretendere diritti d’autore piuttosto salati sulle immagini dei suoi quadri. Che d’altra parte erano indispensabili per ricostruirne la carriera. ” Allora abbiamo avuto un’idea che mi permetto di dire geniale”, ha raccontato Fo.” Proiettare, invece che gli originali, delle riproduzioni rielaborate da me, insomma dei falsi. E sui falsi non si può mettere una tassa. Sono sicuro che dall’aldilà Picasso riderà come un matto”. Due mesi di lavoro con una serie di aiutanti ed ecco più di 100 quadri rimaneggiati e colorati “alla Dario Fo” : una trovata di sicuro successo, uno di quei colpi di scena che fanno parte del suo teatro nel teatro. Mi è però venuto in mente che quei quadri falsi (che probabilmente diventeranno anche una mostra) non sono il primo scherzo che Dario Fo gioca all’autore di Guernica. Qualche anno fa, mentre gli facevo un’intervista, aveva ricordato che nei lontani anni ‘60 la bellissima Franca Rame aveva fatto colpo su Picasso, conosciuto in una vacanza in Provenza. E là, sotto quel cielo azzurro, il maestro l’aveva ritratta in vari disegni. Ma non gliene aveva dato neanche uno, fedele alla sua abitudine di non fare mai regali. Una piccola scortesia che a Fo era tornata in mente anni dopo, vedendoli esposti tutti quanti in una mostra a Milano. E allora aveva voluto fare un tiro mancino a Picasso, copiandoli fedelmente firma compresa. Li aveva poi appesi nel suo studio, proprio davanti alla scrivania, dove sono rimasti fino ad oggi. E forse sono proprio quei bei disegni clamorosamente falsi ad avergli ispirato quest’ultima beffa. « Tarantola e il professore---Chiara Valentini

Beatles: un'eredità che sa di leggenda

La parte più emozionante della cerimonia di chiusura dei Giochi Olimpici di Londra 2012 è durata solo due minuti, i due minuti di "Imagine". La canzone di John Lennon cantata dai bambini vestiti di bianco, in riferimento al videoclip di "War it's Over" girato da Lennon e Yoko, riempiva i cuori di centinaia di milioni di uomini e donne sul pianeta, esattamente come aveva fatto la musica dei Beatles negli anni Sessanta. La rivoluzione culturale I Beatles hanno svegliato il mondo Da Liverpool fino alla Revolution, la storia del gruppo. Canzoni che sembravano leggere hanno innescato un processo di autocoscienza collettiva. Le grandi folle, l'addio ai concerti, il periodo psichedelico, il ruolo di Yoko Ono. Tutto quello che c'è da sapere, 50 anni dopo la prima canzone
Viaggio a Liverpool cinquant'anni dopo Il 5 ottobre del 1962 usciva il primo singolo dei quattro, destinato a rivoluzionare il pop. La città inglese celebra e racconta in maniera sobria il mito inossidabile dei "Fab Four", da Penny Lane a Strawberry Fields, dalla casa di John Lennon a Menlove Avenue al Cavern Club dai nostri inviati GINO CASTALDO, FEDERICO BALLANTI e ERNESTO ASSANTE La Repubblica

lunedì 1 ottobre 2012

Silenzio: è colpa vostra!

Riflessioni dopo l’ultimo scandalo italiano Adesso non dovete protestare, non vi dovete indignare, ma dovete solo provare la più deprimente vergogna.
Voi che avete votato questa classe dirigente; voi che avete preso le tessere di questo o quel partito per trarne un vantaggio personale o semplicemente perché ci credevate; perché dite, si dovrebbe dire credete, di essere di destra o di sinistra; voi che avete appoggiato e difeso i vostri capi di partito o di redazione; voi che avete creduto in questa gentaglia e avete detto: vediamo come va, facciamoli lavorare; voi che avete gridato contro tutti coloro che si sono opposti e si oppongono a questo sistema criminale di essere giacobini, qualunquisti, giustizialisti, idealisti, distruttivi, comunisti, fascisti, inesperti, incapaci, non comunicativi, populisti, terroristi, black block, antidemocratici, eversori, pericolosi, violenti. Adesso che l'ennesimo scandalo tutto italiano emerge alla ribalta della cronaca, voi dovete tacere; perché siete i sudditi di questo sistema criminale che avete alimentato e supportato. Sistema che senza di voi, sudditi scellerati e sciocchi, non avrebbe potuto sopravvivere. Si, siete dei sudditi, dei veri sudditi perché siete contenti di esserlo. Perché vi fate manovrare dai potenti come burattini. Perché davanti alla corruzione, al malaffare, alla criminalità più evidente ed efferata degli uomini che gestiscono il potere, continuate inesorabili a stare dalla loro parte ed accordargli ancora una volta la vostra fiducia. E’ come se steste a guardare come tanti ebeti, il suicidio collettivo. E’ il baratro della stupidità, che in realtà vi rende compiacenti, e corresponsabili della fine. La democrazia è il modo migliore per esercitare una tirannia, perché la legittima con il consenso popolare. Un tiranno che s’impone ha vita breve, ma un tiranno che è legittimato dai suoi sudditi può permettersi di depredargli il futuro di fronte agli occhi. E i tiranni nella nostra democrazia sono molti, troppi. E’ la classe dirigente a cui voi avete da sempre dato la vostra fiducia e che sempre vi guardiate bene dal delegittimare. Anche quando la “pistola fumante” è li davanti ai vostri occhi. E allora è anche colpa vostra. Che vi indignate a fare, perché protestate, quando subite le conseguenze dell’operato criminale della vostra classe dirigente, se siete sempre pronti a capire le loro ragioni, a giustificare i loro comportamenti, a credere alle loro menzogne, evidenti come il sole di mezzogiorno? Nella nostra storia recente abbiamo avuto un momento in cui avevamo in mano la possibilità di rivoluzionare tutto il nostro sistema. Grazie ad ammissioni, confessioni, indagini, si era scoperta la pentola del malaffare italiano, che tutti sapevano esistere, ma nessuno aveva il coraggio di denunciare con prove e fatti concreti. Poi ci fu Mario Chiesa e il Pio Albergo Trivulzio. E’ stato lui il vero rivoluzionario della storia d’Italia. Si era aperta Mani Pulite. Doveva essere la stagione del rinnovamento, quello vero finalmente. Della moralizzazione di questo paese ipocrita e criminale. Doveva essere la controparte del maxi-processo alla Mafia: il maxi-processo ai corrotti del potere. E invece no! Dopo nemmeno due anni, gli eversori della Repubblica, coloro che per anni hanno disintegrato la democrazia e la civiltà dell’Italia con l’attentato e allo stesso tempo con l’operato subdolo, si sono trasformati in vittime con il vostro consenso. Vittime di coloro che per lavoro sono preposti a punirli per i loro reati. Semplice quanto geniale e terribile. La Magistratura indaga e punisce. E’ il suo compito naturale, quello che stabilisce la Costituzione. E lo dovrebbe fare indipendentemente dal potere che ha la persona che delinque. Anzi, chi ha maggiori responsabilità rende più grave il reato che commette. Trasformare l’obbligatorietà dell’azione penale in attacco alla libertà e alla democrazia è la cosa più inaudita, stupida ed eversiva che si possa immaginare. E invece gli avete creduto. Ancora una volta siete stati dalla loro parte. Quando la classe dirigente si trovava all’angolo, ormai sfinita sotto i colpi della propria ipocrisia, del proprio egoismo, della propria stupidità e della propria cattiveria, avete suonato il gong. Li avete salvati e avete deciso che le regole del gioco dovessero essere cambiate. Che l’arbitro non andava bene. Lo avete deciso, perché loro ve lo hanno detto. I criminali sono diventati vittime, i Magistrati, che erano impegnati a difenderci, eversori della Repubblica, toghe rosse e politicizzate. Facciamoci allora le domande più terribili: se noi cittadini avessimo protetto la procura di Milano negli anni più difficili, se avessimo impedito la loro delegittimazione e risposto agli attacchi del potere politico e finanziario contro di essa, come sarebbe andata la storia d’Italia? Che paese avremmo oggi? Come sarebbe la nostra economia? Quanti danni economici avremmo potuto evitare per noi e i nostri figli? Quanti scandali in meno ci sarebbero stati? Quanti Fiorito o Bossi avremmo evitato? Ma la storia non si fa con i “se”, si sa, ed è colpa vostra di chi di voi non ha difeso la procura di Milano e l’inchiesta Mani Pulite. Diego Piccioli (27 settembre 2012)

domenica 30 settembre 2012

LA MIA LOTTA CONTRO I MULINI A VENTO

Quanti di noi spesso si sentono sfiduciati e delusi per una vita spesa lottando come “Don Chisciotte contro i mulini a vento”, ma ancora con tanto voglia di farsi sentire e portare avanti gli ideali di giustizia e libertà nei quali non abbiamo mai smesso di credere . Sono nata alla fine del conflitto mondiale, ho avuto i benefici del boom economico , infatti, pur essendo figlia di un piccolo imprenditore , ho potuto studiare e godere di una certa stabilità economica. Percorrendo la storia della nostra giovane democrazia, ho cercando di superare con difficoltà e spesso con accese lotte, gli ostacoli posti da una famiglia e da una società bigotta e conservatrice , che imponevano il proseguimento dei loro schemi culturali. Questo conflitto generazionale, culminato con le contestazioni del 68, hanno rappresentato il punto di partenza del mio impegno politico e sociale, prima da studentessa e poi da insegnante. Mi sono consumata i piedi e la voce nelle numerose manifestazioni, per i diritti degli studenti, per il divorzio, per aborto, per la riforma del diritto di famiglia, in difesa dei miei diritti di donna e del posto di lavoro, in verità battaglie vinte, anche se con fatica. Nelle piazze gli scontri con le fazioni di destra spesso degeneravano con azioni violente e abbiamo preso botte e denuncie, siamo stati considerati delle teste calde e questo ci ha creato non pochi problemi. Abbiamo resistito, ma gli anni bui del terrorismo ci hanno relegati per alcuni anni nel privato. Dopo la sconfitta del terrorismo, abbiamo ripreso il cammino, la situazione politica era mutata e la destra trova il varco per conquistare la gestione dello Stato con l’aiuto dei mezzi di comunicazione, in particolare della televisione commerciale, ma sopratutto perchè noi di sinistra non siamo stati costanti nella vigilanza e nella difesa dei valori costituzionali. Si affermano così, con la collaborazione della maggioranza della popolazione italiana, nuovi valori e stili di vita basati sull’arrivismo e l’arricchimento personale, rinnegando, e in parte cancellando, gli ideali di giustizia sociale, di solidarietà e di crescita culturale, così faticosamente conquistati. Il denaro è diventato l’unico valore , diventare ricchi e potenti è il solo obiettivo da raggiungere anche calpestando valori di umanità e giustizia sociale, se timidamente cercavi di affermare che i valori erano altri, venivi considerata una persona fuori dal tempo che va contro corrente, non facente parte del gruppo dei vincenti, ma una idealista perdente. Per chi ha creduto per tutta la vita nel socialismo e nell’equità sociale questo ha rappresentato una cocente sconfitta. Tutto ciò non deve produrre rassegnazione, questo l’ho dobbiamo alle nuove generazioni, siamo noi che dobbiamo e possiamo aiutarli, riscoprendo i valori genuini della nostra giovinezza e mettendoci a fianco dei nostri figli e nipoti in marcia per migliorare la situazione politica, economica e sociale del nostro Paese.. PIERA REPICI Roma,30/09/2012

venerdì 28 settembre 2012

Vogliamo chiarezza su l'utilizzo delle le risorse pubbliche

Da sempre, nel nostro Paese, i bilanci delle Istituzioni che ricevono e spendono denaro pubblico, non vengono pubblicizzati, cioè esposti nelle bacheche o sui siti web, in modo che i cittadini utenti, siano informati con chiarezza come ogni singolo euro viene speso, come queste risorse sono state ripartite e se hanno prodotto benefici. Questo stato delle cose, ha permesso la gestione arbitraria e opportunistica delle risorse ed ha incrementato il clientelismo e la corruzione. Gli enti pubblici spesso gestiscono le risorse,con poca competenza e onestà, nei pochi casi in cui questa gestione poco chiara viene scoperta, nessuno paga e questo incoraggia chi gestisce a continuare ad utilizzare per se e per gli amici il denaro pubblico. Bisogna, nell'interesse della collettività, lottare perche le leggi contro la corruzione siano severe, perche la nostra classe politica non ha interesse ad approvare queste leggi, in quanto la gestione poco trasparente del denaro pubblico, fa comodo a loro per primi, e i numerosi casi di corruzione emersi confermano questa tesi. In conclusione, invito ognuno di noi ad essere meno distratto, opportunista e amante del quieto vivere, vigilare sulla gestione della cosa pubblica e denunciare pubblicamente ogni anomalia evidenziata, perche l'omertà è complicità. PIERA REPICI

Vogliamo chiarezza su l'utizzo delle le risorse pubbliche

Da sempre, nel nostro Paese, i bilanci delle Istituzioni che ricevono e spendono denaro pubblico, non vengono pubblicizzati, cioè esposti nelle bacheche o sui siti web, in modo che i cittadini utenti, siano informati con chiarezza come ogni singolo euro viene speso, come queste risorse sono state ripartite e se hanno prodotto benefici. Questo stato delle cose, ha permesso la gestione arbitraria e opportunistica delle risorse ed ha incrementato il clientelismo e la corruzione. Gli enti pubblici spesso gestiscono le risorse,con poca competenza e onestà, nei pochi casi in cui questa gestione poco chiara viene scoperta, nessuno paga e questo incoraggia chi gestisce a continuare ad utilizzare per se e per gli amici il denaro pubblico. Bisogna, nell'interesse della collettività, lottare perche le leggi contro la corruzione siano severe, perche la nostra classe politica non ha interesse ad approvare queste leggi, in quanto la gestione poco trasparente del denaro pubblico, fa comodo a loro per primi, e i numerosi casi di corruzione emersi confermano questa tesi. In conclusione, invito ognuno di noi ad essere meno distratto, opportunista e amante del quieto vivere, vigilare sulla gestione della cosa pubblica e denunciare pubblicamente ogni anomalia evidenziata, perche l'omertà è complicità.

giovedì 27 settembre 2012

Non e' un Paese per giovani

Noi giovani dovremmo rappresentare la parte dinamica della società, gli innovatori e - io direi anche - i custodi del pensiero critico. Abbiamo visto in televisione la caduta del muro di Berlino, i processi di Tangentopoli e le stragi di mafia, non ci siamo formati nella prima Repubblica e non ci siamo costruiti false illusioni sulla seconda. Viviamo l'era della globalizzazione e del consumismo, del conformismo e dell'apparire, ma pochi di noi si rendono conto del fatto che dovremo rivedere al ribasso le nostre aspettative. L'operazione di rapina nei confronti delle giovani generazioni, inizia alla fine degli anni '70, con il ridimensionamento del welfare, per continuare negli anni '90 con le riforme pensionistiche, che lasciando invariato il trattamento previdenziale delle vecchie generazioni, hanno addossato sui giovani tutto il peso dell'invecchiamento della popolazione. Le responsabilità degli attuali sessantenni, abili a mantenere le posizioni di potere, sono chiare e facilmente dimostrabili. In un simile contesto, la reazione e lo scontro generazionale sarebbe naturale, invece troppo spesso ci accontentiamo di essere figli, mentre dovremmo capire che siamo cittadini. Viviamo in una società ingiusta e iniqua, che non investe sulle sue risorse, giovani e meritevoli. Centinaia di giovani ogni anno vengono, in qualche modo, cacciati via da questo paese, per andare a lavorare all'estero. I giovani italiani rispetto ai loro coetanei europei, contano meno: socialmente, economicamente, politicamente. I Giovani italiani hanno il minor peso politico dei paesi occidentali. Siamo l'unico grande paese in cui solo un 25enne su 4 è occupato, e quel 25enne impiegato è sempre precario. Perché alla flessibilità non sono state affiancate misure di protezione sociale. Siamo l'unico paese europeo, insieme alla Grecia, a non avere a livello statale il reddito minimo di cittadinanza. Ai giovani non resta che appoggiarsi fino ai capelli bianchi alle famiglie d'origine - l'unico vero ammortizzatore sociale delle giovani generazioni. Siamo giovani nel momento sbagliato e rischiamo di diventare vecchi nel modo peggiore. Autore Paola Calorenne

mercoledì 26 settembre 2012

“Senza crescita solidale non c’è futuro”

“Oggi c’è una separazione abissale tra il paese reale e chi decide per il suo futuro – ha detto Susanna Camusso, segretaria generale Cgil – e un gigantesco processo di impoverimento che vede crescere esponenzialmente la dimensione dei lavori scarsamente retribuiti e coinvolge soprattutto donne e giovani. E’ evidente che non è questa la strada per crescere: serve dare centralità al lavoro e alla sua qualità come fattore di innovazione, serve costruire modelli di socialità e welfare come fattori di crescita. La scommessa dell’Europa è proprio su questo: si vuole costruire un modello sociale che media tra le politiche economiche e la vita delle persone, oppure vogliamo continuare a impostare i paradigmi di sviluppo sulla base di politiche economiche e monetarie? Se il fondamento su cui se costruisce il paradigma di sviluppo è la famiglia o sono gli individui, o se il modello cambia in maniera fondamentale perché il lavoro - non come variabile residuale, ma come condizione di autonomia delle persone - dove trovare fondamento nell’indipendenza dei soggetti. E questa, per le donne, è una straordinaria questione” Nuovi paradigmi di sviluppo, centralità delle relazioni, qualità del lavoro, competitività solidale e infrastrutturazione sociale. Sono state queste alcune delle parole chiave che hanno ispirato le riflessioni della tavola rotonda “Produrre il cambiamento, preparare il futuro”
, che ha chiuso i lavori della giornata di analisi e riflessione promossa dalla Fondazione Nilde Iotti, oggi a Siena. “Un Paese competitivo e solidale non è una contraddizione - ha esordito nel suo intervento Alessandro Profumo, presidente Banca Monte dei Paschi di Siena - e una maggiore presenza delle donne nel mercato del lavoro è un fattore chiave di competitività. Partiamo da un dato, se il talento è diviso equamente tra uomini e donne, e se le donne sono in percentuale residua nelle aziende, stiamo sprecando del talento e quindi un’opportunità di crescita. Investire sul talento significa darsi obiettivi chiari e promuovere azioni concrete. L’Europa, in questo senso, è un terreno concreto su cui misurarsi e non va inteso come il soggetto da cui giungono imposizioni. In questo percorso è necessario riscostruire una relazione positiva e un dialogo con l’Europa, dove le differenze sono sinonimo di ricchezza”. Dell’esperienza sul campo nell’attuazione delle politiche di genere ha parlato Catiuscia Marini, presidente della Regione Umbria. “Le politiche di genere vanno tirate fuori dai settori di intervento specifici, serve una trasversalità dell’azione di governo rispetto all’insieme delle politiche pubbliche, regionali ma anche nazionali. Questo significa abbandonare i piani settoriali, inserendo in tutte le politiche più robuste, quelle che hanno o attivano risorse, una visione di genere che declini non solo il tema della parità, ma anche della consistenza delle relazioni tra uomini e donne. La crisi ha segnato in maniera profonda il solco della disuguaglianza di genere e sappiamo bene perché. Per ridurre le disuguaglianze, in Umbria per esempio, abbiamo provato a mettere in campo strumenti concreti, con risorse dedicate esclusivamente alle donne. Il disegno di legge della Regione Umbria, in questo senso, ambisce a superare le leggi manifesto, per concretizzare con azioni e progetti, una nuova civiltà delle relazioni tra donne e uomini”. E’ partita da uno spunto positivo Livia Turco, deputata del Pd e presidente della Fondazione "Nilde Iotti" che nel suo intervento ha sottolineato come l’innovazione e l’imprenditorialità siano una delle forme di resistenza nei confronti della crisi che il Paese sta sperimentando. “Un’innovazione che trova applicazione anche nella buona politica – ha detto la Turco – come quella messa in campo dalla Regione Toscana e Umbra sulle leggi della cittadinanza di genere. Bisogna avere il coraggio di investire in settori come il welfare, dove al contrario, il nostro Paese ha fatto enormi passi indietro. Le politiche sociali, al contrario, sono moltiplicatori di opportunità, per cui credo che esistano solo delle remore culturali. Le esperienze di welfare su cui ci siamo confrontati nei seminari di stamattina sono la prova tangibile che le energie sono già in campo e che basta sprigionare l’innovazione per mettere in moto il cambiamento”. A concludere l’incontro le parole di Susanna Cenni. “E’ ovvio - ha concluso la parlamentare toscana del Pd- che parlare di un cambiamento del modello di sviluppo significa mettere in campo la politica pienamente, a partire dal Partito democratico, da cui mi attendo una battaglia e una piattaforma forte sulla democrazia paritaria, sulla riforma della politica e delle istituzioni. L’obiettivo è quello di inaugurare una nuova stagione di politiche, anche nel contesto europeo, profondamente alternative a quelle che, in questi decenni, hanno riconosciuto solo a un mercato privo di regole, un primato che ha mortificato le persone, le donne e le relazioni umane”. “Non è possibile - ha proseguito Cenni - recuperare qualità della vita, lavoro e futuro, se non c’è un cambio di paradigma che trasformi la cura da costo a economia, mettendo al centro le persone nella società e nelle politiche di sviluppo. Come attestano le statistiche, infatti, i Paesi con minore gap di genere, sono quelli più competitivi economicamente. Difficilmente possiamo mettere in campo crescita e cambiamento senza la parità di genere”. Siena / “Senza crescita solidale non c’è futuro” Il convegno della Fondazione Nilde Iotti: nuovi paradigmi per una crescita solidale e un futuro possibile inserito da Redazione di NOI DONNE (26 Settembre 2012)