Non è un paese per donne "Il nostro paese sottolinea a parole il valore della famiglia, ma non fa granchè per sostenerlo effettivamente..."
venerdì 2 luglio 2010
“Lasciare” il lavoro… dietro le quinte della libertà?
Le nuove generazioni, che ne siano consapevoli o no, sono a rischio. E sono molto più sole di quanto non credano
Giancarla Codrignani
Trovo su una rivista di nicchia, edita da un Società cooperativa di Forlì e nota a certa intellighenzia italiana - si chiama Una città - un'intervista a Marina Piazza a proposito di "un'indagine sul perché tante donne decidono di lasciare il lavoro entro il primo anno di vita del bambino". Forse è un segnale che ci può sfuggire, anche se appare rilevante.
Il servizio parte dal caso di una dirigente dell'impresa Red Bull, invitata a lasciare l'azienda dopo la maternità. Piazza spiega ri-raccontando il pregiudizio sulla lavoratrice che, quando diventa madre, "non rende più come prima". La responsabilità non è necessariamente delle ottime condizioni di trattamento della maternità ottenute dalle donne con le loro lotte; ma resta vero che, siccome nel primo anno di vita del bimbo viene mantenuta la copertura salariale per sei mesi, l'ultima statistica Istat rivela che il 13% delle neomamme si dimette spontaneamente.
Tuttavia "la scorciatoia non paga", perché "dopo" viene la dura esperienza della difficoltà di tornare sul mercato del lavoro, che ha due esiti: chi ci torna rischia il "mobbing strategico", chi resta fuori rischia la depressione. Anche perché la mamma "desidera senz'altro stare con il proprio bambino, ma non tutti i giorni 24 ore su 24". Qui si innesta una prima questione: le ragazze stesse forse non se ne accorgono, ma perfino quelle che ci dicono che è meglio trovare un marito ricco e fare la casalinga non pensano assolutamente di diventare come le loro madri. L'indipendenza contemporanea non passa solo, come un tempo, attraverso l'affermazione di sé nel lavoro retribuito, ma sta ormai nella testa: le abitudini sociali delle giovani e giovanissime sono quelle di conoscere un sacco di gente, di non rendere mai conto di dove si va, di stare con gli amici in mezzo alla movida... La casa, pur amata, non basta più alla generalità - non tutte, per carità - delle giovani: starci dentro senza entrarci e uscirne liberamente (come poi diventa praticamente necessario), è una frustrazione che può comportare addirittura la crisi degli equilibri familiari e di coppia. Infatti, dice Piazza, "nessuna di queste donne aveva pensato alla maternità come alternativa al lavoro". Tutte, probabilmente, credevano che, quando il governo giura di mettere al primo posto gli interessi delle famiglie e il ministero del Lavoro con quello delle Pari Opportunità scrive un documento (Italia 2030) per sostenere che ci vogliono più donne al lavoro, parlassero sul serio. Tutte, infatti, "vogliono lavorare bene ed essere delle buone madri". Sarebbe ora di applicare con maggior attenzione forme alternative o complementari: il job sharing, il part time, altre esperienze di flessibilità, anche scandite sull'arco della vita lavorativa. Anche perché non c'è più il modello fordista che, pare impossibile, domina ancora quasi solo da noi... Anche il sindacato non ne esce: "sulla legge 53 non ha mai proposto qualcosa di nuovo" perché non riesce a guardare il mercato - e tanto meno il welfare - "con gli occhi delle donne". È vero che lo stesso mondo femminile per anni ha ritenuto il part time un lavoro dequalificato, non totalmente dignitoso; ma oggi le donne hanno motivato le ragioni di un'opzione che può essere vantaggiosa per entrambi i generi in situazioni date. Invece negli ultimi cinque anni "il 91% di tutto l'aumento di occupazione femminile è dato dal part-time, ma non volontario, bensì imposto dalle aziende". Il welfare appare così ancora "tutto costruito su base lavoristica e il concetto della cura, che è un pilastro della società, non ha alcuna cittadinanza".
Personalmente sono convinta che non sarebbe difficile capire che le donne hanno un'esperienza tale della "flessibilità", se è vero che riescono a tenere insieme tutti i pezzi di vita, che dovrebbe renderle specialiste ricercate, da consultare per uscire dalle rigidità di processi ormai definitivamente compromessi. Invece, evidentemente, per il pensiero unico deve essere difficilissimo anche capire che cosa proponiamo. Intanto cresce la preoccupazione sul grado di tenuta delle donne, soprattutto giovani, che, in quanto donne e in quanto lavoratrici, si ritrovano sole, anche se molte non se ne accorgono neppure. "Parliamo di giovani donne che hanno studiato, che sono brave nel loro lavoro, che quando restano incinte non pensano affatto di lasciare il loro posto. In un certo senso è come se questa nuova generazione proponesse un altro modello, quello di sanare la cesura tra la responsabilità e il desiderio di esserci e trasformare il mondo, e la voglia e la responsabilità di prendersene cura".
Se fosse vero, bisognerebbe cercare di snidare le precarie, le "partite iva" e tutte le marginali. Nella solitudine (che non percepiscono), sono loro, forse, quelle che possono farci (e farsi) venire idee su come sarà, sperando che ci sia, il futuro. Ma intanto loro, che se ne accorgano o no, sono a rischio.
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