Non è un paese per donne "Il nostro paese sottolinea a parole il valore della famiglia, ma non fa granchè per sostenerlo effettivamente..."
giovedì 20 maggio 2010
Parto, l'anestesia è un lusso.
di Tiziana Moriconi
In Italia partorire senza dolore in un ospedale pubblico non è un diritto: soltanto il 42 per cento dei reparti maternità infatti offre l'anestesia epidurale durante il travaglio. Con grandi differenze tra regione e regione In Italia, partorire senza dolore in un ospedale pubblico non è un diritto, ma un lusso che non tutti i nosocomi si possono permettere. Soltanto il 42 per cento dei reparti maternità in Italia, infatti, offre l'anestesia epidurale durante il travaglio, e solo il 16 per cento è in grado di assicurare questo servizio 24 ore su 24. Con grandi differenze tra Regione e Regione: in media l'orario continuato degli anestesisti al reparto di ostetricia è garantito nel 29 per cento delle strutture del Nord, nel 17 di quelle del Centro e nel 12 di quelle del Sud. Complessivamente, l'equo accesso alle prestazioni è salvaguardato appena nel 27 pe cento dei casi. Sono i dati raccolti dalla Associazione anestesisti rianimatori ospedalieri italiani (Aaroi-Emac), che annota come soltanto l'Emilia Romagna, il Veneto e la Lombardia abbiano una legge per assicurare il parto indolore.
Il fatto è che un parto senza dolore costa circa 1.500 euro in più rispetto a un parto senza anestesia, e quella quota in più non viene rimborsata dallo Stato, ma deve essere coperta dal fondo sanitario regionale. Quindi, non tutte le regioni possono permettersi di garantirlo. "La differenza di costo moltiplicata per tutte le nascite può rappresentare una cifra rilevante", spiega Vincenzo Carpino, presidente di Aaroi-Emac: "Tanto che molte regioni del Sud, e in particolare quelle commissariate, hanno deciso di aspettare che lo Stato faccia rientrare il parto in analgesia tra i trattamenti rimborsati, come lo è il cesareo. Ma la proposta di legge in proposito, avanzata dall'ex ministro Livia Turco nel 2006, è congelata". Non solo: a complicare le cose c'è la carenza di anestesisti rianimatori nell'organico degli ospedali; che nel Meridione si può dire cronica.
Ci sono poi i rischi che questa pratica comporta: gli stessi di un'anestesia per un intervento chirurgico addominale: cefalee acute, ipotensione e tachicardia. "Non è una passeggiata", sottolinea Caprino: "Ma i rischi sono compensati da notevoli vantaggi: i muscoli pelvici vengono rilassati, la donna non soffre e può quindi partecipare e collaborare maggiormente al parto, e anche il bambino soffre meno".
(17 maggio 2010)
martedì 18 maggio 2010
Se le donne sono contro le donne con i figli.
di Emanuela Valente
Non capisco perché una donna che ha deciso di diventare madre pretenda poi di continuare a lavorare. Non capisco perché una donna che vuole lavorare decida di avere dei figli. Non capisco perché una donna che ha dei figli li lasci a casa con una babysitter. Non capisco perché andare a lavorare quando poi tutto lo stipendio viene preso dalle tate e i figli crescono senza una madre.
Tutte queste incomprensioni sono femminili. Tutte le lettere da cui ho tratto questi concetti sono firmate da donne. Tutte queste frasi sono arrivate in risposta ad un articolo dove non si parlava né di donne né di mamme né di figli e neanche di babysitter. Nell’articolo si parlava di una legge, la 1204/71, e la successiva 53/2000, che vieta il licenziamento in maternità e fino al compimento del primo anno del bambino, determina il diritto all’astensione obbligatoria e facoltativa, alla retribuzione e all’allattamento. Non è in discussione se una donna che diventa madre abbia o meno diritto a lavorare, ma questo è un evidente caso in cui la legge è arrivata in anticipo sulla consapevolezza sociale. Questa legge viene continuamente disattesa, ignorata, calpestata. Con la complicità di migliaia di donne che sottostanno al modus vivendi del sistema lavorativo italiano. Che accettano tre mensilità, forse ignorando che ne spettano diciotto, per dare le dimissioni. Che non sporgono denuncia, non aprono vertenze, non protestano, non si uniscono per fermare la prepotenza di chi ha come unico scopo il solo proprio personale profitto economico. Che sono state capaci di rivendicare la gestione di un utero ma non sono altrettanto consapevoli dell’esercizio dei propri diritti, come se le donne, per prime, si identificassero piuttosto come ovaie che come persone. In Francia oltre il 70% delle donne lavora, prima e dopo il primo, il secondo e non raramente dopo il terzo o quarto figlio. Questo permette alle nostre cugine d’oltralpe un maggiore potere economico, un più consistente rilievo sociale, la possibilità di un ruolo determinante nella gestione della famiglia e dello Stato. Questo significa anche avere il potere necessario a pretendere servizi congrui, come asili nido e scuole aperti fino alle 18,30, babysitter convenzionate col Comune e disponibilità di un giorno lavorativo alla settimana, interamente retribuito, da dedicare alle incombenze familiari e casalinghe. Se le maestre scioperano, i genitori non protestano perché non sanno dove mettere i figli, ma scendono in piazza a fianco agli insegnanti. Il comune restituisce 1 euro e 20: il costo della mensa per il giorno in cui i bambini non hanno potuto usufruire del pasto. Inutile pensare di combattere una battaglia se prima non si addestrano i soldati. Questo è quanto devo amaramente concludere riflettendo sulle polemiche innescate da un articolo che, al limite, avrebbe dovuto infastidire i miei ex datori di lavoro, e non scatenare battibecchi dell’anteguerra sulla giusta cura della casa e il galateo della buona madre di famiglia. La legge è fatta, ora bisogna fare le italiane.
Chi ruba per sè ruba la speranza degli altri------Concita De Gregorio
Chi ruba per sé ruba la speranza degli altri. Ruba la capacità di resistere in un mondo di regole, se chi può le viola e deve rispettarle solo chi è più debole, chi non ha amici potenti, chi non conosce scorciatoie o non vuole prenderle, in questo caso un eroe della resistenza civile. Milioni di eroi sconosciuti si ostinano a resistere. A prendere calci in faccia dalle cricche e pagare il conto per loro. Alcuni, disperati, cercano i tetti e le isole. Altri si uccidono in forme sempre più insopportabili per chi resta. Smettiamo di parlare, per un momento: facciamo di conto.
Per una minoranza che ruba c'è una maggioranza che paga. La manovra da 25 miliardi - gli ulteriori sacrifici che ci aspettano, la novità è un prelievo del 10 per cento su scuola e pubblico impiego - corrisponde a poco meno di un decimo del furto: i furbi di tutte le cricche sottraggono allo stato ogni anno 220 miliardi. La corruzione ne ruba 60, l'evasione 160. Sono stime certamente per difetto. Vediamo più da vicino. Una larga fetta dell'evasione riguarda le società di capitali. L'81% circa delle società di capitali italiane dichiara redditi negativi (53%) o meno di 10mila euro (28%). In pratica su 800mila società di capitali l'81% non versa le imposte. Una perdita per l'erario di 18 miliardi l'anno. Per le big company, invece, una su tre ha chiuso il bilancio in perdita e non pagando le tasse. In totale 31 miliardi in meno. 10 miliardi poi è quello che riguarda i lavoratori autonomi e le piccole imprese. Il resto è da ripartire tra economia criminale e lavoro sommerso. Combattere e punire l'evasione. Estirpare dal suo corpo il cancro della corruzione capillare. Un governo capace di far questo non avrebbe bisogno di chiedere altri soldi ai dipendenti pubblici, ai pensionati. Darebbe una speranza di lavoro ai giovani.
I furbi costano agli italiani onesti l'equivalente di dieci manovre economiche. Li prendono a calci in faccia ogni giorno. È una questione di tempo: si tratta di capire se arriverà prima l'agonia o la ribellione. La rabbia cova sotto la cenere.
La madre che si uccide dissanguandosi parlerà per molto tempo a ciascuno di noi. A quelli che vanno a fare la spesa nel capannone fuori Firenze rovistando tra le casse a terra, a chi fa la fila fuori dal negozio di Salerno dove dopo le sette di sera la merce si vende a metà prezzo. Nelle code, fra le casse sta in fila gente che poi torna a casa e dovrebbe educare i figli al rispetto delle libertà e delle regole. Per quanto ancora? Le università sono in rivolta, i ricercatori gridano al mondo il trattamento che viene riservato a chi investe in sapere anzichè in astuzia truffaldina. È una guerra: una guerra civile condotta dai ladri contro gli inermi.
L'altra querra quella delle bombe, continua a fare vittime. Ancora due soldati italiani, visi da ragazzini, tra i feriti una donna. La marcia per la Pace è stata domenica. Sembra retorica: ci hanno convinti che sia solo retorica. Invece no: pretendere la pace, fuori e dentro il paese è l'unica battaglia che abbia senso combattere. Con le armi della politica e della parola, speriamo che non sia già troppo tardi.
mercoledì 12 maggio 2010
Donne uccise : Italia prima in Ue per omicidi in casa
Roma, 11 mag. (Apcom) - Spetta all'Italia il triste record di essere prima nazione in Europa per omicidi in famiglia. Oggi tre nuovi episodi di questa tragedia spesso invisibile, uno in Sicilia e due in Piemonte: tre donne hanno perso la vita uccise dai compagni o da un congiunto. In Sicilia una guardia giurata 25enne di Gela al culmine di una violenta lite ha ucciso la moglie ed è fuggito con la figlia di due anni. Poche ore dopo l'omicidio, l'uomo è stato individuato e arrestato dalla polizia del paese in provincia di Agrigento. Due i casi in Piemonte, entrambi a Torino: un uomo, separato dalla moglie, l'ha uccisa con 50 coltellate perchè riteneva che 'manovrasse' le figlie di 5 e 7 anni per non fargliele vedere. Il secondo caso è quello di un 65enne che ha ucciso la zia soffocandola con un cuscino e poi, dopo averla vegliata per tutta la notte, ha cercato di togliersi la vita tagliandosi le vene. In Italia si consuma un omicidio in famiglia in media ogni 2 giorni, 2 ore, 20 minuti e 41 secondi: e troppo spesso sono le donne a pagare la violenza dei mariti, soprattutto in caso di divorzi o separazioni, o i bambini quella di madri cadute in depressione. Il movente è passionale nel 25,9% degli omicidi, seguono contrasti personali nel 21,8% dei casi, i disturbi psichici nel 16,15% dei casi, le liti per l'assegnazione della casa coniugale nel 15% dei casi, le ragioni economiche (assegni di mantenimento o restituzioni di somme) nell'8% dei casi. L'Ami, associazione matrimonialisti italiani, spiega che nel nostro paese l'omicidio 'tra le mura domestiche' ha sempre più spesso un movente legato a fattori economici e soprattutto all'assegnazione della casa coniugale, che oggi sta diventando il vero 'pomo della discordia', ancor di più di quello dell'affidamento e della gestione dei figli. Le nuove povertà prodotte dalla separazione e la lunghezza insopportabile dei processi sono altre ragioni che contribuiscono a determinare le stragi familiari. Una spaventosa escalation destinata ad aumentare in proporzione all'aumento di separazioni e divorzi. I dati parlano chiaro: nel 30% dei casi le separazioni sono accompagnate da reati intrafamiliari, molti dei quali sfociano successivamente in gesti estremi. I maschi italiani, a differenza della stragrande maggioranza dei cittadini stranieri, vedono nella separazione una vergogna o un affronto, molte volte da lavare con il sangue. I reati intrafamiliari (maltrattamenti e abusi) nel 60% dei casi sono prescritti o quando vi è condanna viene inflitta al colpevole una pena del tutto simbolica. Tragedie che spesso avrebbero potuto essere evitate: nel 65% dei casi di omicidio o strage in famiglia, infatti, vi erano stati già pericolosi segnali di violenza o minacce, negligentemente sottovalutate da chi di dovere.
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In Italia quel che resta del tesoretto di Craxi due milioni restituiti allo Stato dopo 16 anni.
In Italia quel che resta del tesoretto di Craxi due milioni restituiti allo Stato dopo 16 anni.
Sedici anni dopo ,quel che restava del tesoretto di Bettino Craxi è tornato definitivamente nelle tasche dello Stato.Tanto è servito all'Erario per ottenere gli ultimi 2 milioni di euro, sequestrati dal pool di Mani pulite a Giorgio Tradati.Il "cuoco di Bettino", così era chiamato il compagno di scuola dell'ex leader socialista,era finito in carcere nell'ottobre del 94, accusato di essere stato l'ultimo prestanome dei conti esteri illeciti riconducibili a Craxi......
Tratto da:
Il caso di:Emilio Randagio
La Repubblica del 12/05/2010
martedì 11 maggio 2010
Il film della settimana: "Agora" di Alejandro Amenabardi Michele Martelli
Agorà, il film del regista spagnolo Alejandro Amenábar, che racconta la tragedia di Ipazia d’Alessandria, è davvero scioccante. Anche per chi su Ipazia ha già letto qualche libro. Perché la potenza delle immagini in celluloide è in grado di suscitare sentimenti, pensieri ed emozioni di una rapidità e intensità tale che nessuna parola scritta può eguagliare. Uscito dalla sala, non puoi non continuare a riflettere sulle vicende narrate nel film. E magari a immaginare in che mondo vivremmo se avesse vinto Ipazia, e non l’episcopo Cirillo. Eh sì, perché la storia di Ipazia si colloca in un periodo di svolta storica, tra il IV e il V secolo d.C., dei cui effetti deleteri, nonostante le moderne Rivoluzioni e l’Illuminismo, il liberalismo e la democrazia, non ci siamo ancora completamente liberati.
Agorà, il film del regista spagnolo Alejandro Amenábar, che racconta la tragedia di Ipazia d’Alessandria, è davvero scioccante. Anche per chi su Ipazia ha già letto qualche libro. Perché la potenza delle immagini in celluloide è in grado di suscitare sentimenti, pensieri ed emozioni di una rapidità e intensità tale che nessuna parola scritta può eguagliare. Uscito dalla sala, non puoi non continuare a riflettere sulle vicende narrate nel film. E magari a immaginare in che mondo vivremmo se avesse vinto Ipazia, e non l’episcopo Cirillo. Eh sì, perché la storia di Ipazia si colloca in un periodo di svolta storica, tra il IV e il V secolo d.C., dei cui effetti deleteri, nonostante le moderne Rivoluzioni e l’Illuminismo, il liberalismo e la democrazia, non ci siamo ancora completamente liberati.
Ipazia, storia della prima scienziata vittima del fondamentalismo religioso
Per gentile concessione dell'editore pubblichiamo la prefazione di Margherita Hack al libro "IPAZIA. Vita e sogni di una scienziata del IV secolo d.c." di Antonio Colavito e Adriano Petta (La Lepre Edizioni), in libreria dal 20 ottobre.
di Margherita Hack
In questo romanzo storico si ricostruisce l’ambiente e l’epoca in cui ha vissuto la prima donna scienziata la cui vita ed opere ci sono state tramandate da numerose testimonianze. Gli autori hanno fatto ricorso a una ricchissima bibliografia, che permette di far emergere dalla lontananza di 16 secoli questa figura di giovane donna in tutti i suoi aspetti umani, privati e pubblici, la sua vita quotidiana, i suoi dialoghi con la gente comune, con i suoi allievi, con gli scienziati.
Ipazia era nata ad Alessandria d’Egitto intorno al 370 d.C., figlia del matematico Teone. Fu barbaramente assassinata nel marzo del 415, vittima del fondamentalismo religioso che vedeva in lei una nemica del cristianesimo, forse per la sua amicizia con il prefetto romano Oreste che era nemico politico di Cirillo, vescovo di Alessandria.
Malgrado l’amicizia con Sinesio, vescovo di Tolemaide, che seguiva le sue lezioni, i fondamentalisti temevano che la sua filosofia neoplatonica e la sua libertà di pensiero avessero un’influenza pagana sulla comunità cristiana di Alessandria.
L’assassinio di Ipazia è stato un altro atroce episodio di quel ripudio della cultura e della scienza che aveva causato molto tempo prima della sua nascita, nel III secolo dopo Cristo, la distruzione della straordinaria biblioteca alessandrina, che si dice contenesse qualcosa come 500.000 volumi, bruciata dai soldati romani e poi, successivamente, il saccheggio della biblioteca di Serapide. Dei suoi scritti non è rimasto niente; invece sono rimaste le lettere di Sinesio che la consultava a proposito della costruzione di un astrolabio e un idroscopio.
Dopo la sua morte molti dei suoi studenti lasciarono Alessandria e cominciò il declino di quella città divenuta un famoso centro della cultura antica, di cui era simbolo la grandiosa biblioteca. Il ritratto che ci è stato tramandato è di persona di rara modestia e bellezza, grande eloquenza, capo riconosciuto della scuola neoplatonica alessandrina.
Ipazia rappresenta il simbolo dell’amore per la verità, per la ragione, per la scienza che aveva fatto grande la civiltà ellenica. Con il suo sacrificio comincia quel lungo periodo oscuro in cui il fondamentalismo religioso tenta di soffocare la ragione.Tanti altri martiri sono stati orrendamente torturati e uccisi. Il 17 febbraio 1600 Giordano Bruno fu mandato al rogo per eresia, lui che scriveva: «Esistono innumerevoli soli; innumerevoli terre ruotano attorno a questi, similmente a come i sette pianeti ruotano attorno al nostro Sole. Questi mondi sono abitati da esseri viventi». Galileo, convinto sostenitore della teoria copernicana, indirettamente provata dalla sua scoperta dei quattro maggiori satelliti di Giove, fu costretto ad abiurare.
Il fondamentalismo non è morto. Ancora oggi si uccide e ci si fa uccidere in nome della religione. Anche nei nostri civili e materialistici paesi industrializzati avvengono assurde manifestazioni di oscurantismo, come in alcuni stati della civilissima America in cui si proibisce di insegnare nelle scuole la teoria dell’evoluzione di Darwin e si impone l’insegnamento del creazionismo. Su questa strada di ritorno al Medioevo si è messa anche la nostra ministra dell’Istruzione (o dovremmo dire della distruzione?) tentando di cancellare la teoria darwiniana dalle scuole elementari e medie. Perché? Per ignoranza? Per accontentare una Chiesa cattolica che non mi sembra ingaggi più queste battaglie perse in partenza.
Questa storia romanzata ma vera di Ipazia ci insegna ancora oggi quale e quanto pervicace possa essere l’odio per la ragione, il disprezzo per la scienza. È una lezione da non dimenticare, è un libro che tutti dovrebbero leggere.
lunedì 10 maggio 2010
Graziella Proto: donna e giornalista in terra di mafia
Il dire e il fare delle donne nella lotta alle mafie
Rosa Frammartino
Giuseppe Fava, il giornalista scrittore ucciso dalla mafia il 5 gennaio del 1984, le diceva sempre "…molla tutto e vieni con noi…" Noi, vale a dire " I SICILIANI " la rivista da lui fondata e diretta.
“... è una persona vera” dice uno studente del liceo Ariosto di Reggio Emilia, per descriverla dopo averla ascoltata. Graziella Proto, ospite del progetto “Percorsi di Cittadinanza & Legalità” promosso dal Consorzio “O. Romero” a marzo 2010 stimolata dal tema “Donna e giornalista in terra di mafia”, è un ciclone. I ragazzi e le ragazze di Reggio Emilia, affascinati, ascoltano dalla sua viva voce il racconto della sua esperienza di giornalismo militante. Un’esperienza difficile, importante, avventurosa, utile. L’antimafia non avrebbe potuto fare a meno del suo contributo. Nell’ottobre del 2007 è stata inserita, unica donna, tra i giornalisti minacciati dalla mafia (Venerdì di Repubblica).
Conclude l’incontro con i giovani, ma abbiamo ancora un po’ di tempo per conoscere meglio una donna che, ancora oggi, è protagonista di importanti pagine di giornalismo ed impegno antimafia.
Il tuo giornalismo parla di cose vere. Fatti, nomi e cognomi. Hai sempre pensato di fare la giornalista? Dove hai imparato?
Io sono biologa. Certamente l'incontro con Giuseppe Fava è stato determinante. Lui è stato un grande, mi ha spronato moltissimo, mi ha contagiato la sua passione per il giornalismo… facevo i miei esperimenti con le cavie negli stabulari dell'università e subito dopo ero in qualche sezione del Partito Comunista per intervistare i vecchi compagni… Ho imparato così, in una scuola di altissimo livello e con un maestro geniale.
La tua vita si è spesso intrecciata con mondi differenti: dal giornalismo all’impegno politico, dall’insegnamento alla ricerca scientifica. Come hai conciliato interessi in alcuni casi tanto distanti fra loro?
Facendo salti mortali come tutte le altre donne impegnate dentro e fuori casa; donne che amano la famiglia e contemporaneamente sono rapite da altro interesse, politico o professionale; convinte che si possa fare l'uno e l'altro. Sono una donna innamorata della vita; appassionata alle cose che faccio. Per ritagliarmi una parte di spazio dagli affetti e dai doveri sono stata in guerra tutti giorni. Mio marito innamoratissimo è stato il mio irriducibile nemico e, nel contempo, il mio più grande sostenitore. Pur non condividendo, è stata l'unica persona a rimanermi accanto tutte le volte che i problemi mi sommergevano e, intorno a me, si faceva il vuoto.
Com’è cambiata la tua vita da presidente della cooperativa “I Siciliani”?
L'esperienza de " I Siciliani " è stata meravigliosa, affascinante e tragica. Sono stata eletta presidente dopo la morte di Fava in un momento in cui le cose andavano malissimo - sia per le finanze che per la disgregazione del gruppo. Ero la più anziana; l'unica con un reddito, il mio stipendio e la mia dedizione alla causa li avevo già impegnati lì. Per finanziare il progetto, e fare uscire il giornale per cui Fava era stato ammazzato, giravo come una trottola per cercare alleati… amici... idee. Un impegno a 360 gradi non sempre apprezzato dai miei compagni di cordata. Quando arrivò il fallimento, la mia vita cambiò totalmente. Per anni ho combattuto una battaglia logorante con i tribunali, con i pregiudizi, i pettegolezzi, le maldicenze.
Da “I Siciliani” a “Casablanca”. Un modo coraggioso di usare la penna contro le mafie e le ingiustizie. Serve ancora? E tu, ti senti ancora di farlo?
Ho collaborato con Enzo Biagi, con Liberazione di Sandro Curzi che mi stimava tantissimo, Avvenimenti, Antimafia 2000 e tante piccole testate locali… ma avere un giornale intero a disposizione era ben altro: la scommessa di un nuovo mensile nel solco de "I Siciliani" era eccitante. Casablanca a Catania. Una rivista antimafiosa diretta, edita e gestita da una donna, perché no? Non mi sento di paragonare "I Siciliani" a "Casablanca", mi sa di blasfemo. Nel primo c'era Fava, il maestro, l'artista… Tuttavia bisogna dire che, oggi, a collaborare con Casablanca sono persone e professionisti plasmati da Giuseppe Fava e lo stile comunicativo lo rivela. Un’altra avventura entusiasmante, un giornale irriverente, ironico, allegro. Inchieste sulla mafia, cronaca e tante donne. Un ritratto al mese di grandi o piccole donne. Due anni di edicola in solitaria economia… problemi di quotidiana sopravvivenza. Se serve ancora scrivere contro le mafie? Sì. Anzi, oggi più che mai. La mafia ha cambiato da tempo fisionomia e caratteristiche. Le multinazionali sono un ottimo treno per far viaggiare il denaro sporco. Rifarei tutti i sacrifici che ho fatto ma, nel frattempo, sono diventata nonna e i miei nipotini si propongono come padroni assoluti del mio tempo.
(10 maggio 2010)
mercoledì 5 maggio 2010
Involuzione democratica...Esiste un modello di politica al femminile condiviso?
Involuzione democratica
Regioni popolate solo di cravatte
Esiste un modello di politica al femminile condiviso, definito nei modi e nei contenuti?
Tiziana Bartolini
Sono 95 le donne nei 13 Consigli regionali dopo le recenti elezioni. Poiché 33 non sono state elette - nel senso che entrano per effetto di meccanismi normativi diversi per ogni Regione quali listini bloccati o perchè candidate alla presidenza - sono 62 le Consigliere che hanno raccolto un sufficiente numero di preferenze, cioè meno del 9%. Il dato numerico è talmente catastrofico da rendere inutili eventuali micro-analisi. Sul piano politico l’unica novità si rintraccia in Campania, dove le 14 Consigliere sono elette grazie alla legge regionale che permette la doppia preferenza uomo/donna. La tabella riepilogativa dà la misura della involuzione democratica in atto. I risultati elettorali sono stati accolti dai trionfalismi di chi ha vinto e dal rammarico di chi non ha vinto (come nella Prima Repubblica nessuno ha perso), ma tutti i commenti hanno sottolineato il dato dell’astensione, con il solo 64,2% di votanti. Non un cenno allo scandalo di zero donne nel Consiglio regionale in Calabria o alla vergogna di solo uomini nel PD del Lazio e nel Centrodestra in Puglia. L’astensione preoccupa tutti, stampa osservatori politici e sociali, invece la cancellazione delle donne non è neppure rilevata. Il deficit di democrazia costituito dalla scarsa rappresentanza femminile nelle assemblee elettive semplicemente non esiste, figuriamoci se può essere considerato
NUMERO DI DONNE ELETTE PER REGIONE E PARTITO DI APPARTENENZA
un problema. Questo è il punto e da qui le donne devono partire. Negli ultimi mesi il dibattito sull’uso del corpo femminile nei media e nella pubblicità è riuscito a varcare i confini dei circuiti di riferimento delle donne e in qualche modo la questione si è posta ad un’attenzione più larga. Sul tema della rappresentanza femminile nelle assemblee elettive dovrebbe accadere qualcosa di analogo, perchè i livelli in cui siamo richiedono terapie d’urto, considerando che il dibattito sulle quote rosa o il 50e50 e persino la modifica costituzionale non hanno portato risultati. Le donne non votano donna, è questo è un primo nodo da sciogliere interrogandosi sulle ragioni e sui possibili rimedi. Però c’è altro da capire. Occorre domandarsi, ad esempio, se esiste un modello di politica al femminile condiviso, se è definito nei modi e nei contenuti, oppure perchè le donne non fanno lobby tra loro. Teniamo conto che amministrare gli Enti Locali significa operare scelte nel campo dell’assistenza sociale, ma anche nell’urbanistica e nei lavori pubblici o sui beni demaniali. Cosa e come possono le donne esprimersi in quanto tali nelle varie competenze che ha chi governa? Se non esiste un femminile da declinare che so, nella manutenzione stradale e nelle attività produttive, o lo si elabora o le donne sono destinate a restare marginali. A meno di non allearsi con potenti e potentati, accettando i prezzi da pagare. Ma a quel punto, come donne, il gioco varrebbe la candela?
(2 maggio 2010)
"Draquila",i vampiri delle emergenze.
Draquila”, i vampiri delle emergenze. Sabina Guzzanti racconta il nuovo film
di Alessandra Mammì, L’espresso, 6 maggio 2010
"Nei giorni del terremoto, ci avevo creduto anch'io che il governo stesse reagendo bene all'emergenza. Tenevo a bada il mio antiberlusconismo, e mi ripetevo: chissà, stavolta, forse...".
Poi, però, è partita per l'Aquila Sabina Guzzanti. Partita, come dice nel suo film, dopo i grandi della Terra, le suore, i boy scout, gli studenti e George Clooney. Partita in luglio a vedere quel terremoto che si era trasformato in evento mediatico e in gigantesca occasione di propaganda per un Berlusconi che, grazie alla tragedia, risaliva lentamente nei sondaggi.
Così, era partita la Guzzanti, senza un gran progetto, con una vaga idea di film, una troupe fatta di tre donne e una camera digitale, nessuna particolare aspettativa. Certo non quella di rimanerci impigliata quasi un anno, di accumulare 700 ore di girato, di vivere un'esperienza che lascia il segno e infine di conquistare un posto d'onore (special screening) al Festival di Cannes.
Ed ecco 'Draquila': un film che non fa ridere nonostante la nota e feroce capacità di satira della regista e il titolo apparentemente ironico. Un film che non fa piangere nonostante il tema e il sottotitolo 'L'Italia che trema'. Un film sul potere e non sul dolore. Un film duro, a volte sarcastico, ma strettamente logico che porta avanti come un treno la sua tesi. Ovvero: l'Aquila è un laboratorio; un test che dimostra come si possano cambiare i patti sociali, alterare i principi costituzionali e di fatto sparare allo Stato col silenziatore, in modo che i cittadini non se ne accorgano. Il tutto spiegato stavolta senza urli faziosi, ma con raggelata pacatezza. Ed è piaciuto ai selezionatori di Cannes questo linguaggio secco a ciglio asciutto, con una punta acida, da sana scuola Michael Moore: stessa voce fuori campo, stesse domande tanto pertinenti da diventare impertinenti, stessi siparietti grafici con fatti e numeri, stesso montaggio serrato di testimonianze, opinioni e facce diverse, ma tutte travolte dal soffio della storia.
Uomini e donne in tendopoli militarizzate costretti a seguire la dieta dell''attendato' (no alcol, né caffè, né Coca-Cola); i senzatetto con nuova casa assegnata dal premier innamorati persi di Berlusconi; il vecchio professore che fa resistenza barricandosi nel suo appartamento: "Se quelli ti pigliano sei finito"; l'urbanista, teorico delle newtown, che spiega come un centro commerciale è molto meglio di un centro storico e una feroce sequenza sulla tenda del Pd vuota di uomini ma con molta spazzatura e avanzo marcito di panino con frittata.
Niente sinistra, Protezione civile militarizzata e un premier che spopola. Cominciamo dalla solitudine del panino?
"Troppo splatter, tutto verde e muffo. Questo è un film rigoroso, il panino non l'abbiamo inquadrato".
Rigoroso e spietato. J'accuse di 93 minuti che va ben oltre L'Aquila...
"Questa è l'intenzione. L'Aquila è una cartina di tornasole del malessere del Paese intero. Ho visto tutti gli ingredienti della nostra crisi: l'assenza di un'opposizione; il dilagare della propaganda; la speculazione; la criminalità organizzata; l'indifferenza della gente; l'impotenza di chi cerca di far qualcosa e resta solo; lo Stato parallelo che nasce mentre quello vero neanche se ne rende conto. È un film su come si costruisce una dittatura".
Anche 'Viva Zapatero' era un film sull'arroganza del potere. Cosa cambia qui?
"Noi: popolo italiano. In cinque anni siamo cambiati molto. Non si vede più una capacità di reazione, si è affievolito il ricordo della vita democratica, se ne è persa finanche la nostalgia. Si reagisce all'indignazione adattandosi, ci si costruisce una vita parallela, piccole strategie di resistenza. È così che se all'Aquila ti dicono 'questo lo decide il capocampo', non ti viene da rispondere: 'Ma chi è il capocampo? Chi lo ha nominato? Che rappresenta? In base a cosa è pubblico ufficiale?'. Si obbedisce come se fossimo finiti tutti nel club di Topolino".
Che cosa le fa più paura in Berlusconi?
"A me non fa nessuna paura Berlusconi. Penso che sia uno squalo che come tale mangia tutto ciò che trova intorno. Non ho niente contro gli squali, sono creature come le altre, basta che stiano al loro posto in fondo all'Oceano. Se invece uno squalo passeggia in via del Corso, mi preoccupo".
Spiegazione della metafora?
"Berlusconi non è arrivato al potere con strumenti democratici, perché in democrazia non si può fare il premier controllando tv e giornali e gestendo in prima persona la propaganda. La cosa che più mi ha colpito all'Aquila è quanto la televisione sia stata più forte del terremoto. La gente non distingue più tra realtà e finzione, anzi la realtà televisiva è spesso più forte di quel che vedono e sentono. Donne raccontavano di aver imparato dai loro nonni a fuggire alla prima scossa, ma il 6 aprile sono rimaste nelle loro case, solo perché il telegiornale le aveva rassicurate. Un uomo ha perso due figli perché quella notte li ha rimessi nei loro lettini, convinto dai media che non ci fosse alcun pericolo. Terribile dirlo, ma la propaganda all'Aquila è stata più forte degli antenati e persino dell'istinto di sopravvivenza. Quando sono le gambe prima ancora del pensiero a farti scappare se la terra trema. È chiaro adesso di che potere sto parlando?".
Chiaro. Ma allora come mai nel film ha fatto parlare tanti berlusconiani pazzi del premier che mostravano la meraviglia della casa assegnata con tanto di pentole e spumante in frigo?
"Perché non sono faziosa come si dice. E volevo capire e ascoltare. Capire come si possa rinunciare a una bellissima città, fatta di persone e monumenti, di vita e memoria per sostituirla con diciannove quartieri senz'anima, spuntati dal nulla, ai bordi di una strada statale, lontani fra loro che aspettano solo un centro commerciale. Un tempo mi era impossibile anche pensare di parlare con uno che vota Berlusconi. L'Aquila mi ha cambiato, voglio parlare con tutti. E tutti avevano una gran voglia di parlare. Nessuna intervista è durata meno di un'ora. Spesso si dilungavano fino a tre, quattro ore. Ancor più spesso me ne andavo io, se no si faceva notte. È così che sono arrivata a 700 ore di girato".
Ma non la riconoscevano? Non la identificavano come un nemico?
"Non mi riconosceva quasi nessuno. Non apparendo su Canale 5, ho questo vantaggio. Mi chiedevano solo: 'Lei di che televisione è?'. Io rispondevo: 'Nessuna, stiamo facendo cinema'. E loro: 'Brava! E quando va in onda?'. Non c'era verso. Persino ai posti di blocco i militari insistevano: 'Va bene cinema, ma cinema di che rete?'".
Nelle note di regia però lei ha scritto: "Ho scoperto di amare questo Paese". Perché?
"Perché come l'Aquila questo Paese lo stiamo distruggendo. E come spesso accade, ti accorgi di quanto ami qualcuno e di quanto sia prezioso, solo quando lo stai perdendo. Oddio, non sarò mica diventata patriottica!".
(4 maggio 2010)
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domenica 2 maggio 2010
Congedo di maternità, non diritto ma privilegio. Parola di Mariastella Gelmini
di Cecilia M. Calamani [1 mag 2010]
Il congedo di maternità è “un privilegio”. In perfetto sincronismo con la festa dei lavoratori, questa è la sconcertante dichiarazione al Corriere della Sera di Mariastella Gelmini, ministra dell’Istruzione. La quale, non contenta, prosegue: “Una donna normale deve certo dotarsi di una buona dose di ottimismo, per lei è più difficile, lo so; so che è complicato conciliare il lavoro con la maternità, ma penso che siano poche quelle che possono davvero permettersi di stare a casa per mesi. Bisogna accettare di fare sacrifici”.
Forse, cara ministra, sono poche quelle che possono permettersi di tornare a lavorare, in quei cinque mesi. Probabilmente Lei non sa neanche cosa significhi, con uno stipendio da operaia o da impiegata, avere un figlio. Per Lei, il problema più grande sarà trovare un paio di tate tuttofare, che La seguano nelle trasferte a Roma portandoLe la Sua bimba per le poppate. Le notti in bianco, occuparsi della casa e dei figli, fare la spesa, pulire, cucinare, far quadrare il bilancio familiare, pagare le bollette e le rette degli asili nido non sono problemi di cui Lei risentirà, dall’alto della Sua posizione privilegiata. Con quale coraggio, e soprattutto con quale faccia, chiede alle lavoratrici madri dei ‘sacrifici’?
Oggi è la festa dei lavoratori. Delle lotte operaie e sindacali che hanno permesso il riconoscimento dei loro diritti, ai quali si attenta quotidianamente con forme di lavoro da strozzinaggio per eludere proprio quelle conquiste – e il congedo per maternità è una di esse – pagate a caro prezzo negli anni Settanta con serrate, scioperi e sacrifici, quelli veri, non quelli di cui Lei si riempie la bocca.
Lei, dal suo scranno ministeriale, parla di madri lavoratrici senza sapere di cosa stia parlando; legifera sull’istruzione senza aver mai insegnato; propone la regionalizzazione della scuola pubblica quando Lei per prima, per passare l’esame da procuratore, si è trasferita nel profondo Sud, a Reggio Calabria, dove essere bocciata sarebbe stata, negli anni intorno al 2000, una singolare eccezione. Lei pontifica, oggi, sul merito, quando non ha disdegnato le scorciatoie dei furbetti per ottenere il titolo di avvocato di cui si fregia; Lei si permette di parlare di diritti e sacrifici alle donne che non hanno avuto un ‘papi’ prima, che potesse permettersi di mantenerle durante il praticantato in altra città, e un ‘Papi’ dopo, a portarle in palmo di mano a sedere in Parlamento e poi nel Consiglio dei ministri.
Ma ciò che è veramente triste, ministra Gelmini, è che Lei, donna, vada contro le donne, quelle ‘privilegiate’ alle quali un contratto di lavoro a tempo indeterminato – laddove resista ai licenziamenti in massa derivanti dalla crisi – permette di sostenere l’onere di una maternità. Alle altre, infatti, le innumerevoli lavoratrici a contratto o a chiamata, è preclusa, anche grazie al Governo che Lei rappresenta, l’idea stessa di futuro.
Sabina folgorata sulla strada dell'Aquila
di Alessandra Mammì
Il dolore dei terremotati. La speculazione. Il potere della propaganda. Il ruolo di Berlusconi. La Guzzanti parla del nuovo film: 'In Abruzzo si capisce come si può costruire una dittatura'. Colloquio con Sabina Guzzanti
Nei giorni del terremoto, ci avevo creduto anch'io che il governo stesse reagendo bene all'emergenza. Tenevo a bada il mio antiberlusconismo, e mi ripetevo: chissà, stavolta, forse...".
Poi, però, è partita per l'Aquila Sabina Guzzanti. Partita, come dice nel suo film, dopo i grandi della Terra, le suore, i boy scout, gli studenti e George Clooney. Partita in luglio a vedere quel terremoto che si era trasformato in evento mediatico e in gigantesca occasione di propaganda per un Berlusconi che, grazie alla tragedia, risaliva lentamente nei sondaggi.
Così, era partita la Guzzanti, senza un gran progetto, con una vaga idea di film, una troupe fatta di tre donne e una camera digitale, nessuna particolare aspettativa. Certo non quella di rimanerci impigliata quasi un anno, di accumulare 700 ore di girato, di vivere un'esperienza che lascia il segno e infine di conquistare un posto d'onore (special screening) al Festival di Cannes.
Ed ecco 'Draquila': un film che non fa ridere nonostante la nota e feroce capacità di satira della regista e il titolo apparentemente ironico. Un film che non fa piangere nonostante il tema e il sottotitolo 'L'Italia che trema'. Un film sul potere e non sul dolore. Un film duro, a volte sarcastico, ma strettamente logico che porta avanti come un treno la sua tesi. Ovvero: l'Aquila è un laboratorio; un test che dimostra come si possano cambiare i patti sociali, alterare i principi costituzionali e di fatto sparare allo Stato col silenziatore, in modo che i cittadini non se ne accorgano. Il tutto spiegato stavolta senza urli faziosi, ma con raggelata pacatezza. Ed è piaciuto ai selezionatori di Cannes questo linguaggio secco a ciglio asciutto, con una punta acida, da sana scuola Michael Moore: stessa voce fuori campo, stesse domande tanto pertinenti da diventare impertinenti, stessi siparietti grafici con fatti e numeri, stesso montaggio serrato di testimonianze, opinioni e facce diverse, ma tutte travolte dal soffio della storia.
Uomini e donne in tendopoli militarizzate costretti a seguire la dieta dell''attendato' (no alcol, né caffè, né Coca-Cola); i senzatetto con nuova casa assegnata dal premier innamorati persi di Berlusconi; il vecchio professore che fa resistenza barricandosi nel suo appartamento: "Se quelli ti pigliano sei finito"; l'urbanista, teorico delle newtown, che spiega come un centro commerciale è molto meglio di un centro storico e una feroce sequenza sulla tenda del Pd vuota di uomini ma con molta spazzatura e avanzo marcito di panino con frittata.
Niente sinistra, Protezione civile militarizzata e un premier che spopola. Cominciamo dalla solitudine del panino?
"Troppo splatter, tutto verde e muffo. Questo è un film rigoroso, il panino non l'abbiamo inquadrato".
Rigoroso e spietato. J'accuse di 93 minuti che va ben oltre L'Aquila...
"Questa è l'intenzione. L'Aquila è una cartina di tornasole del malessere del Paese intero. Ho visto tutti gli ingredienti della nostra crisi: l'assenza di un'opposizione; il dilagare della propaganda; la speculazione; la criminalità organizzata; l'indifferenza della gente; l'impotenza di chi cerca di far qualcosa e resta solo; lo Stato parallelo che nasce mentre quello vero neanche se ne rende conto. È un film su come si costruisce una dittatura".
Michelle
La folgorazione è stata davanti a un abito stile impero, indossato durante la Convention democratica del 2008. Da quel momento la newyorkese Mary Tolmer ha deciso di seguire lo stile di madame Obama passo passo: dall'abito griffato Isabel Toledo esibito il giorno dell'investitura a presidente del marito, al raffinato capo grigio Lanvin fotografato in occasione della festa della donna, fino alla colorata camicia firmata Alexander McQueen indossata nel recente incontro con alcuni studenti, ma - si fa notare - già avvistata un paio d'anni fa, in un appuntamento al Minneapolis Club. La radiografia dello stile di Michelle, diventata ormai un'icona quasi quanto il marito, si trova sul blog www.mrs-o.org: dove degli abiti e accessori che sfoggia nelle varie occasioni viene fornita la fotografia e il nome dello stilista. Dal blog è stato tratto anche un libro: 'Mrs. O. The face of fashion democracy'.
Francesca Schianchi
Dweb / LA MARCIA DELLE BAMBOLE
Perché non è vero che gli uomini nascono tutti uguali (Mondadori) di Steven Pinker e Il paradosso dei sessi (Einaudi) di Susan Pinker, scrittori che sostengono che le differenze di comportamento tra maschi e femmine sono osservabili alla nascita e non c'entrano nulla con l'influenza della famiglia, dei coetanei o del più ampio contesto culturale. "Se questo determinismo si limitasse ai giocattoli o ai colori non sarebbe così importante. Il fatto è che rinforza gli stereotipi e viene usato per dirci che lavoro scegliere e come vivere la nostra vita, limitando le nostre ambizioni", attacca Walter. "Automaticamente le donne che scelgono una carriera in politica sono etichettate come non femminili. O - quando sono molto carine - da non prendere assolutamente sul serio. Se accettiamo che le donne siano programmate biologicamente per modellarsi sugli stereotipi più limitati della femminilità non ci muoveremo mai dallo status quo. L'altro giorno parlavo con una giornalista che aveva realizzato un sondaggio tra le parlamentari a Westminster. Nessuna si sentiva in grado di ambire alla posizione di primo ministro. Perché?".
Perché non è vero che gli uomini nascono tutti uguali (Mondadori) di Steven Pinker e Il paradosso dei sessi (Einaudi) di Susan Pinker, scrittori che sostengono che le differenze di comportamento tra maschi e femmine sono osservabili alla nascita e non c'entrano nulla con l'influenza della famiglia, dei coetanei o del più ampio contesto culturale. "Se questo determinismo si limitasse ai giocattoli o ai colori non sarebbe così importante. Il fatto è che rinforza gli stereotipi e viene usato per dirci che lavoro scegliere e come vivere la nostra vita, limitando le nostre ambizioni", attacca Walter. "Automaticamente le donne che scelgono una carriera in politica sono etichettate come non femminili. O - quando sono molto carine - da non prendere assolutamente sul serio. Se accettiamo che le donne siano programmate biologicamente per modellarsi sugli stereotipi più limitati della femminilità non ci muoveremo mai dallo status quo. L'altro giorno parlavo con una giornalista che aveva realizzato un sondaggio tra le parlamentari a Westminster. Nessuna si sentiva in grado di ambire alla posizione di primo ministro. Perché?".
Attualità
Spie
Incontro Gaia Repossi forte e semplice
di Angelo Flaccavento
Essere "figli di" è un vantaggio impagabile o una responsabilità insormontabile? Non mi considero "figlia di". E poi ho deciso di entrare nell'azienda di famiglia piuttosto tardi, a vent'anni. Non volevo fare questo lavoro: per me la pittura era tutto. Infatti sono ancora pittrice, ma in segreto. Viene spesso paparazzata sui blog di stile ed è considerata una icona del nuovo jet set. La sua visione dello stile e della moda? La moda per me non esiste. Lo stile non si costruisce. Essere se stessi è il più bel modo di essere eleganti. Scelgo le cose che non mi camuffano ma che hanno forza. C'è un tratto distintivo nel suo lavoro? Il volume. Amo i grossi bracciali che si indossano a paio come facevano gli antichi romani, e gli anelli dal disegno forte . Dove e come nascono i pezzi della collezione Ere by Repossi? Nell'anima. Personalmente quali gioielli indossa? I miei anelli lunghi che coprono le dita intere. Ne ho una ventina, d'oro o argento nero. A volte porto le mie manchette, o tanti bangles impilati uno sull'altro, come si fa in India. Ho anche dei turchesi dei nativi d'America che amo molto. Di recente la moda sembra aver riscoperto il minimalismo. Come creatrice di gioielli il problema la tocca? Per niente. Amo le cose che non muoiono, che hanno una vita lunga e che non costringono l'acquirente a comprare in urgenza. Concorda sul fatto che i dettagli sono essenziali? No: per me i dettagli non contano affatto. Sono una fan del "less is more". Come si rende moderno un gioiello? Moderno è una parola che non capisco. Per me gli oggetti devono avere forza. Potendo indossare un solo gioiello quale sceglierebbe e perché? Il mio anello lungo d'oro nero che copre il dito Twin, o quello che ho fatto per il mio amico Joseph Altuzarra. È forte e semplice, appunto. Gaia Repossi è figlia di Alberto Repossi, gioielliere con boutique in Place Vendôme a Parigi, e fornitore ufficiale del Principe di Monaco. Nel 2007, dopo studi di archeologia e storia dell'arte Gaia entra nell'impresa di famiglia come creative director. Lancia la collezione Ere, disegnata con l'amica Eugénie Niarchos, inventando d'emblée il gioiello rock bizantino.
Spie
Incontro Gaia Repossi forte e semplice
di Angelo Flaccavento
Essere "figli di" è un vantaggio impagabile o una responsabilità insormontabile? Non mi considero "figlia di". E poi ho deciso di entrare nell'azienda di famiglia piuttosto tardi, a vent'anni. Non volevo fare questo lavoro: per me la pittura era tutto. Infatti sono ancora pittrice, ma in segreto. Viene spesso paparazzata sui blog di stile ed è considerata una icona del nuovo jet set. La sua visione dello stile e della moda? La moda per me non esiste. Lo stile non si costruisce. Essere se stessi è il più bel modo di essere eleganti. Scelgo le cose che non mi camuffano ma che hanno forza. C'è un tratto distintivo nel suo lavoro? Il volume. Amo i grossi bracciali che si indossano a paio come facevano gli antichi romani, e gli anelli dal disegno forte . Dove e come nascono i pezzi della collezione Ere by Repossi? Nell'anima. Personalmente quali gioielli indossa? I miei anelli lunghi che coprono le dita intere. Ne ho una ventina, d'oro o argento nero. A volte porto le mie manchette, o tanti bangles impilati uno sull'altro, come si fa in India. Ho anche dei turchesi dei nativi d'America che amo molto. Di recente la moda sembra aver riscoperto il minimalismo. Come creatrice di gioielli il problema la tocca? Per niente. Amo le cose che non muoiono, che hanno una vita lunga e che non costringono l'acquirente a comprare in urgenza. Concorda sul fatto che i dettagli sono essenziali? No: per me i dettagli non contano affatto. Sono una fan del "less is more". Come si rende moderno un gioiello? Moderno è una parola che non capisco. Per me gli oggetti devono avere forza. Potendo indossare un solo gioiello quale sceglierebbe e perché? Il mio anello lungo d'oro nero che copre il dito Twin, o quello che ho fatto per il mio amico Joseph Altuzarra. È forte e semplice, appunto. Gaia Repossi è figlia di Alberto Repossi, gioielliere con boutique in Place Vendôme a Parigi, e fornitore ufficiale del Principe di Monaco. Nel 2007, dopo studi di archeologia e storia dell'arte Gaia entra nell'impresa di famiglia come creative director. Lancia la collezione Ere, disegnata con l'amica Eugénie Niarchos, inventando d'emblée il gioiello rock bizantino.
ANTICHE CENERI di Concita De Gregorio
Festa di famiglia e di amici per due ragazzi che partono. Marco, 24 anni, si è laureato in chimica farmaceutica a Firenze con una tesi di ricerca straordinaria che studia come limitare gli effetti collaterali dei farmaci anticancro. Lo hanno chiamato all'Istituto Marie Curie, oltralpe, gli offrono 2500 euro al mese di borsa di studio per proseguire con loro il suo lavoro almeno per tre anni. Prima di partire ha chiesto in Facoltà, ad imprese pubbliche e private italiane: se vi servo resto. Vai, gli hanno detto. Qui all'Università non entrerai mai, non sei figlio di nessuno. Se ti va bene e qualcuno alla fine ti raccomanda trovi lavoro per 600 euro in qualche istituto e ti mettono a fare fotocopie, chi studia e lavora fa paura, ti faranno la guerra. Vai. Federico, il suo amico d'infanzia, si era appassionato al giapponese perché gli piacevano i manga. Vent'anni dopo si è laureato con una tesi sull'evoluzione delle lingue orientali dai testi classici al pop. Ha vinto una borsa di studio a Tokio, gli danno la casa e gli pagano due viaggi all'anno per l'Italia. Sono stati molto fortunati. Bravi e fortunati, ci siamo detti salutandoli. A migliaia di ragazzi non va così, leggete le analisi e i numeri che porta oggi Roberto Rossi. La festa di congedo, dunque, era moderatamente allegra. Fieri di loro, gli adulti, e rassegnati a perderli. Claudia Cucchiarato, che conoscete per le sue cronache dalla Spagna, ha raccolto in un libro le storie di chi, come lei, "vive altrove". Ieri abbiamo pubblicato uno stralcio del libro, oggi vi diciamo come è nato e cosa racconta, alla fine, di questo nostro paese che importa badanti e braccianti senza diritti ed esporta la sua intelligenza, il suo futuro, la sua forza. Igiaba Scego, italiana, insegnante e scrittrice, figlia di somali esuli perché perseguitati dal regime, indirizza attraverso l'Unità una lettera al presidente della Repubblica: lo fa qualche tempo dopo l'appello del capo dello Stato ai giovani, "resistete", diceva. Igiaba gli domanda con delicatezza, come. Praticamente, materialmente: come. Io vorrei restare, dice: penso che ci sia bisogno davvero di resistere. Ma come. L'economista Stefano Fassina parla di "Master and back", un tentativo fatto in Sardegna per far tornare a casa i laureati dopo la specializzazione. Si potrebbe fare, volendo. Non si vuole. Non interessa: a chi governa interessa solo oggi e qui, solo il personale tornaconto di chi è al potere adesso. Dei ragazzi che vivono altrove potete leggere on line e su carta le voci. Moltissimi di loro, la stragrande maggioranza, non tornerà.
D'altra parte tornare in un paese dove, sotto relativo silenzio, un ministro della Repubblica vive in una casa pagata per tre quinti con fondi neri erogati da un (per così dire) imprenditore della cricca che campa di appalti pubblici e ricambia la cortesia non è da augurare nè consigliare a chi ha vent'anni. I ragazzi sanno benissimo che l'andazzo è questo, che questa è solo l'ultima delle sconcezze, che il sistema è marcio e che la forza per bonificarlo di certo non ce l'ha chi non ha lavoro nè speranza di averlo senza sottostare ai ricatti. E' un peccato davvero, perchè stiamo perdendo insieme alla loro indignazione anche la nostra. La rabbia di chi resta, orfana di sguardi intatti, cova sotto antiche ceneri e promette sventure.
Festa di famiglia e di amici per due ragazzi che partono. Marco, 24 anni, si è laureato in chimica farmaceutica a Firenze con una tesi di ricerca straordinaria che studia come limitare gli effetti collaterali dei farmaci anticancro. Lo hanno chiamato all'Istituto Marie Curie, oltralpe, gli offrono 2500 euro al mese di borsa di studio per proseguire con loro il suo lavoro almeno per tre anni. Prima di partire ha chiesto in Facoltà, ad imprese pubbliche e private italiane: se vi servo resto. Vai, gli hanno detto. Qui all'Università non entrerai mai, non sei figlio di nessuno. Se ti va bene e qualcuno alla fine ti raccomanda trovi lavoro per 600 euro in qualche istituto e ti mettono a fare fotocopie, chi studia e lavora fa paura, ti faranno la guerra. Vai. Federico, il suo amico d'infanzia, si era appassionato al giapponese perché gli piacevano i manga. Vent'anni dopo si è laureato con una tesi sull'evoluzione delle lingue orientali dai testi classici al pop. Ha vinto una borsa di studio a Tokio, gli danno la casa e gli pagano due viaggi all'anno per l'Italia. Sono stati molto fortunati. Bravi e fortunati, ci siamo detti salutandoli. A migliaia di ragazzi non va così, leggete le analisi e i numeri che porta oggi Roberto Rossi. La festa di congedo, dunque, era moderatamente allegra. Fieri di loro, gli adulti, e rassegnati a perderli. Claudia Cucchiarato, che conoscete per le sue cronache dalla Spagna, ha raccolto in un libro le storie di chi, come lei, "vive altrove". Ieri abbiamo pubblicato uno stralcio del libro, oggi vi diciamo come è nato e cosa racconta, alla fine, di questo nostro paese che importa badanti e braccianti senza diritti ed esporta la sua intelligenza, il suo futuro, la sua forza. Igiaba Scego, italiana, insegnante e scrittrice, figlia di somali esuli perché perseguitati dal regime, indirizza attraverso l'Unità una lettera al presidente della Repubblica: lo fa qualche tempo dopo l'appello del capo dello Stato ai giovani, "resistete", diceva. Igiaba gli domanda con delicatezza, come. Praticamente, materialmente: come. Io vorrei restare, dice: penso che ci sia bisogno davvero di resistere. Ma come. L'economista Stefano Fassina parla di "Master and back", un tentativo fatto in Sardegna per far tornare a casa i laureati dopo la specializzazione. Si potrebbe fare, volendo. Non si vuole. Non interessa: a chi governa interessa solo oggi e qui, solo il personale tornaconto di chi è al potere adesso. Dei ragazzi che vivono altrove potete leggere on line e su carta le voci. Moltissimi di loro, la stragrande maggioranza, non tornerà.
D'altra parte tornare in un paese dove, sotto relativo silenzio, un ministro della Repubblica vive in una casa pagata per tre quinti con fondi neri erogati da un (per così dire) imprenditore della cricca che campa di appalti pubblici e ricambia la cortesia non è da augurare nè consigliare a chi ha vent'anni. I ragazzi sanno benissimo che l'andazzo è questo, che questa è solo l'ultima delle sconcezze, che il sistema è marcio e che la forza per bonificarlo di certo non ce l'ha chi non ha lavoro nè speranza di averlo senza sottostare ai ricatti. E' un peccato davvero, perchè stiamo perdendo insieme alla loro indignazione anche la nostra. La rabbia di chi resta, orfana di sguardi intatti, cova sotto antiche ceneri e promette sventure.
sabato 1 maggio 2010
PAOLA CALORENNE.. Ripartire dagli ultimi. Questo Primo Maggio gli ultimi sono gli uomini e le donne di ogni colore sfruttati per il profitto. Sono quelli di Rosarno. «Ma Rosarno è una metafora», spiega il leader della Cgil Guglielmo Epifani. «Ci sono tante Rosarno, sono nei campi, nei cantieri, nei retrobottega». Immagini che potrebbero... essere state scattate nell’Ottocento: «Ci dicono che i diritti del lavoro non sono acquisiti per sempre. Vanno riconquistati e difesi».
PAOLA CALORENNE: Una partenza straordinaria quella della raccolta firme per i referendum per l’acqua pubblica. Più che raddoppiato l’obiettivo che il Comitato promotore si era dato alla vigilia del lancio. Sono infatti oltre centomila le firme raccolte nel fine settimana della Liberazione in centinaia di piazze italiane.Una mobilitazione impressionante che ha visto lunghe file ai banchetti di tutte le città e dei paesi. Un folla consapevole e determinata, che in alcuni casi ha fatto anche diversi chilometri per trovare il banchetto più vicino a casa ..
DONNE MEDIA E POTERECondividi
giovedì 22 aprile 2010 alle ore 23.02 | Modifica nota | Elimina
“Noi donne siamo sole”. Con queste parole Daniela Albanesi, Centro per le Pari Opportunità Regione Umbria, ha aperto il primo dei quattro appuntamenti dedicati al tema della donna, alle riflessioni sulla sua condizione e al complesso rapporto con il mondo dei media e del potere. Tanti i temi trattati e le problematiche messe sul tavolo: dal ruolo della donna all’interno della famiglia, all’esclusione dalle posizioni lavorative di prestigio, alla strumentalizzazione del corpo e alla posizione all’interno della società occidentale ed islamica.
Concita De Gregorio, direttore Unità, ha sottolineato come troppo spesso la donna venga considerata come una categoria a sé stante. “ Non basta dire donna”, ha più volte sottolineato il direttore dell’Unità riprendendo il titolo di un articolo e ribadendo la necessità di andare oltre le differenze di genere, raccontando una realtà in cui sempre più ragazzine sperano nei book fotografici per trovare lavoro, e di una condizione femminile peggiorata.
Parzialmente diversa la posizione di Alessandra Arachi, giornalista del Corriere della Sera ed Emilio Carelli, direttore di SkyTg24. “Quando ho iniziato a scrivere pensare a dei capi-servizio donne, era inconcepibile mentre oggi al Corriere della Sera siamo equamente ripartiti tra uomini e donne. Sono convinta che da questo punto di vista un progresso notevole ci sia stato. Quello, purtroppo, a cui stiamo assistendo è una retrocessione collettiva dell’intera società. La cooptazione non è di genere, è sia maschile che femminile e i diritti che vengono a mancare, vengono meno per entrambi”. Questa la riflessione di Alessandra Arachi a cui ha fatto eco Emilio Carelli. “Molto è cambiato nella società attuale – ha sostenuto il direttore di SkyTg 24 – e in diversi campi la donna ha raggiunto posizioni di prestigio. Bisognerebbe smettere di parlare di uomo-donna ed applicare altre categorie, prima fra tutte quella di individuo”.
Interessante l’analisi di Joumana Haddad (An-Nahar) che allarga la discussione alla condizione della donna nel mondo aggiungendovi la dimensione religiosa. “ Il velo o il Burqa coprono il corpo della donna che rappresenta una tentazione per gli uomini. In questo senso la religione ha contribuito a trasformare il corpo della donna in “peccato”, un oggetto di desiderio e di paura. In Libano le donne che portano la minigonna si sentono emancipate ma l’emancipazione è altra cosa, la si raggiunge con le leggi”. E allora che fare? A margine del panel discussion si è tentato di trovare delle soluzioni, e il primo punto da cui ripartire sembra essere quello di credere più in sé stesse.
Erica Cecili
giovedì 22 aprile 2010 alle ore 23.02 | Modifica nota | Elimina
“Noi donne siamo sole”. Con queste parole Daniela Albanesi, Centro per le Pari Opportunità Regione Umbria, ha aperto il primo dei quattro appuntamenti dedicati al tema della donna, alle riflessioni sulla sua condizione e al complesso rapporto con il mondo dei media e del potere. Tanti i temi trattati e le problematiche messe sul tavolo: dal ruolo della donna all’interno della famiglia, all’esclusione dalle posizioni lavorative di prestigio, alla strumentalizzazione del corpo e alla posizione all’interno della società occidentale ed islamica.
Concita De Gregorio, direttore Unità, ha sottolineato come troppo spesso la donna venga considerata come una categoria a sé stante. “ Non basta dire donna”, ha più volte sottolineato il direttore dell’Unità riprendendo il titolo di un articolo e ribadendo la necessità di andare oltre le differenze di genere, raccontando una realtà in cui sempre più ragazzine sperano nei book fotografici per trovare lavoro, e di una condizione femminile peggiorata.
Parzialmente diversa la posizione di Alessandra Arachi, giornalista del Corriere della Sera ed Emilio Carelli, direttore di SkyTg24. “Quando ho iniziato a scrivere pensare a dei capi-servizio donne, era inconcepibile mentre oggi al Corriere della Sera siamo equamente ripartiti tra uomini e donne. Sono convinta che da questo punto di vista un progresso notevole ci sia stato. Quello, purtroppo, a cui stiamo assistendo è una retrocessione collettiva dell’intera società. La cooptazione non è di genere, è sia maschile che femminile e i diritti che vengono a mancare, vengono meno per entrambi”. Questa la riflessione di Alessandra Arachi a cui ha fatto eco Emilio Carelli. “Molto è cambiato nella società attuale – ha sostenuto il direttore di SkyTg 24 – e in diversi campi la donna ha raggiunto posizioni di prestigio. Bisognerebbe smettere di parlare di uomo-donna ed applicare altre categorie, prima fra tutte quella di individuo”.
Interessante l’analisi di Joumana Haddad (An-Nahar) che allarga la discussione alla condizione della donna nel mondo aggiungendovi la dimensione religiosa. “ Il velo o il Burqa coprono il corpo della donna che rappresenta una tentazione per gli uomini. In questo senso la religione ha contribuito a trasformare il corpo della donna in “peccato”, un oggetto di desiderio e di paura. In Libano le donne che portano la minigonna si sentono emancipate ma l’emancipazione è altra cosa, la si raggiunge con le leggi”. E allora che fare? A margine del panel discussion si è tentato di trovare delle soluzioni, e il primo punto da cui ripartire sembra essere quello di credere più in sé stesse.
Erica Cecili
Eleonora Martini
Obiezione di coscienza anche per i farmacisti
«Anche i farmacisti hanno il diritto personale di dichiararsi obiettori di coscienza e di essere perciò esentati dall'obbligo di vendere medicinali di contraccezione d'emergenza». È un attacco diretto alla cosiddetta «pillola del giorno dopo», il ddl presentato dalla senatrice cattolica del Pdl Ada Spadoni Urbani («con il permesso del capogruppo», assicura), che questa mattina verrà formalmente depositato ma che al momento sembra non aver spopolato nemmeno tra i banchi del centrodestra, tanto da aver raccolto per ora non più di una manciata di firme. Ma l'intenzione, esplicitata dalla stessa senatrice - ex imprenditrice spoletina al suo primo mandato in Parlamento dopo l'esperienza amministrativa come vice presidente della Regione Umbria -, è quella di «riconoscere il diritto di ciascuno a vedere rispettato il proprio convincimento religioso, etico e scientifico», riguardo «al momento in cui viene concepita la vita». Contraccezione d'emergenza, dunque, ma non solo. È il via libera verso l'obiezione di coscienza alla vendita di contraccettivi in genere, o perfino di qualunque farmaco, sia pure dietro presentazione di prescrizione medica.«Non sono un medico, ho studiato fisica, ma la mia è una legge laica che vuole solo mettere i farmacisti nelle stesse condizioni di medici e infermieri, la cui libertà di coscienza è garantita dalle leggi sull'aborto, la 194, e sulla fecondazione artificiale, la 40, assicurando però contemporaneamente al paziente - puntualizza Spadoni Urbani - il diritto di procurarsi i farmaci legittimamente richiesti». Infatti, se il primo comma del testo di legge riconosce ai «farmacisti interni ed esterni alle strutture sanitarie pubbliche e private» il diritto a non vendere «farmaci che hanno lo scopo di bloccare l'ovulazione o di impedire l'impianto dell'ovocita eventualmente fecondato» - basandosi sull'assunto che «la società scientifica è divisa» nel considerare la "pillola del giorno dopo" un vero contraccettivo piuttosto che un abortivo («è una questione di tempi entro i quali si assume il farmaco», spiega Spadoni Urbani che però non fa nomi di scienziati pronti a confutare il meccanismo d'azione del farmaco riconosciuto come contraccettivo dal Sistema sanitario nazionale e mondiale) - è il comma numero 7 quello che dovrebbe garantire il diritto della paziente. Peccato che la norma preveda già il modo di aggirare la legge stessa. A spiegarlo bene è la stessa senatrice pro-life: «Se il farmacista ha il diritto di seguire la propria coscienza, la farmacia pubblica o privata che sia deve garantire la dispensazione dei medicinali anche attraverso farmacisti non obiettori presenti nell'organico. Nel caso in cui una farmacia ne fosse sprovvista, come è possibile in molte piccole realtà, il personale ha l'obbligo di fornire le opportune informazioni sulla dislocazione delle più vicine strutture ove operano farmacisti non obiettori». Dovrebbe funzionare così anche per l'interruzione di gravidanza eppure è sotto gli occhi di tutti l'impossibilità ormai di trovare negli ospedali pubblici di molte regioni d'Italia, soprattutto al sud, medici che non si dichiarino antiabortisti, la maggior parte delle volte solo per esigenze di carriera.Il ddl sembra non dispiacere alla Federazione degli Ordini dei farmacisti italiani, il cui presidente Andrea Mandelli, dopo aver annunciato di essere in contatto «con la classe politica e con le autorità competenti del Vaticano», chiede che la questione venga «risolta a livello politico». Il senatore Ignazio Marino (unica voce forte ad essersi alzata dalle fila del Pd), invece, avverte dei pericoli a cui si esporrebbe lo Stato laico accettando un simile criterio: «Allora chi per motivi religiosi è contrario alla contraccezione dovrebbe allora avere il diritto di non vendere un profilattico o la pillola anticoncezionale; oppure come ci comporteremmo nei confronti di un dipendente di una banca del sangue che si converte ad una confessione contraria alle trasfusioni: accetteremmo il rifiuto di dispensare sangue ad un emorragico per motivi di coscienza?» «E l'obiezione di coscienza dei militari, allora? Avreste impedito anche il no alla leva?», ribatte la senatrice pro-life Spadoni Urbani, degna esponente del Popolo delle libertà. E il dubbio, a sentirla fare certi paragoni, è che ci creda davvero.
Obiezione di coscienza anche per i farmacisti
«Anche i farmacisti hanno il diritto personale di dichiararsi obiettori di coscienza e di essere perciò esentati dall'obbligo di vendere medicinali di contraccezione d'emergenza». È un attacco diretto alla cosiddetta «pillola del giorno dopo», il ddl presentato dalla senatrice cattolica del Pdl Ada Spadoni Urbani («con il permesso del capogruppo», assicura), che questa mattina verrà formalmente depositato ma che al momento sembra non aver spopolato nemmeno tra i banchi del centrodestra, tanto da aver raccolto per ora non più di una manciata di firme. Ma l'intenzione, esplicitata dalla stessa senatrice - ex imprenditrice spoletina al suo primo mandato in Parlamento dopo l'esperienza amministrativa come vice presidente della Regione Umbria -, è quella di «riconoscere il diritto di ciascuno a vedere rispettato il proprio convincimento religioso, etico e scientifico», riguardo «al momento in cui viene concepita la vita». Contraccezione d'emergenza, dunque, ma non solo. È il via libera verso l'obiezione di coscienza alla vendita di contraccettivi in genere, o perfino di qualunque farmaco, sia pure dietro presentazione di prescrizione medica.«Non sono un medico, ho studiato fisica, ma la mia è una legge laica che vuole solo mettere i farmacisti nelle stesse condizioni di medici e infermieri, la cui libertà di coscienza è garantita dalle leggi sull'aborto, la 194, e sulla fecondazione artificiale, la 40, assicurando però contemporaneamente al paziente - puntualizza Spadoni Urbani - il diritto di procurarsi i farmaci legittimamente richiesti». Infatti, se il primo comma del testo di legge riconosce ai «farmacisti interni ed esterni alle strutture sanitarie pubbliche e private» il diritto a non vendere «farmaci che hanno lo scopo di bloccare l'ovulazione o di impedire l'impianto dell'ovocita eventualmente fecondato» - basandosi sull'assunto che «la società scientifica è divisa» nel considerare la "pillola del giorno dopo" un vero contraccettivo piuttosto che un abortivo («è una questione di tempi entro i quali si assume il farmaco», spiega Spadoni Urbani che però non fa nomi di scienziati pronti a confutare il meccanismo d'azione del farmaco riconosciuto come contraccettivo dal Sistema sanitario nazionale e mondiale) - è il comma numero 7 quello che dovrebbe garantire il diritto della paziente. Peccato che la norma preveda già il modo di aggirare la legge stessa. A spiegarlo bene è la stessa senatrice pro-life: «Se il farmacista ha il diritto di seguire la propria coscienza, la farmacia pubblica o privata che sia deve garantire la dispensazione dei medicinali anche attraverso farmacisti non obiettori presenti nell'organico. Nel caso in cui una farmacia ne fosse sprovvista, come è possibile in molte piccole realtà, il personale ha l'obbligo di fornire le opportune informazioni sulla dislocazione delle più vicine strutture ove operano farmacisti non obiettori». Dovrebbe funzionare così anche per l'interruzione di gravidanza eppure è sotto gli occhi di tutti l'impossibilità ormai di trovare negli ospedali pubblici di molte regioni d'Italia, soprattutto al sud, medici che non si dichiarino antiabortisti, la maggior parte delle volte solo per esigenze di carriera.Il ddl sembra non dispiacere alla Federazione degli Ordini dei farmacisti italiani, il cui presidente Andrea Mandelli, dopo aver annunciato di essere in contatto «con la classe politica e con le autorità competenti del Vaticano», chiede che la questione venga «risolta a livello politico». Il senatore Ignazio Marino (unica voce forte ad essersi alzata dalle fila del Pd), invece, avverte dei pericoli a cui si esporrebbe lo Stato laico accettando un simile criterio: «Allora chi per motivi religiosi è contrario alla contraccezione dovrebbe allora avere il diritto di non vendere un profilattico o la pillola anticoncezionale; oppure come ci comporteremmo nei confronti di un dipendente di una banca del sangue che si converte ad una confessione contraria alle trasfusioni: accetteremmo il rifiuto di dispensare sangue ad un emorragico per motivi di coscienza?» «E l'obiezione di coscienza dei militari, allora? Avreste impedito anche il no alla leva?», ribatte la senatrice pro-life Spadoni Urbani, degna esponente del Popolo delle libertà. E il dubbio, a sentirla fare certi paragoni, è che ci creda davvero.
Realtà e teoria
"Noi donne, meno libere di vent'anni fa
Una società asfittica che guarda indietro, non accetta nuove figure femminili.
E' vero: «Siamo sole»
Il movimento femminista non ha liberato le donne, scriveva sabato sul Corriere Susanna Tamaro. Ed è vero. Per essere libere bisogna avere opportunità, e diritti. E invece: dopo le prime, vitali (per molte donne sì, vitali) conquiste, come il diritto a interrompere una gravidanza, le femministe-guida d'Italia sono andate dove le portava l'ombelico. Invece di battersi per quote sul lavoro e asili nido, hanno passato svariati anni a discutere di «pensiero della differenza». Lasciandosi indietro milioni di donne che avrebbero appoggiato (avrebbero beneficiato di) battaglie liquidate come «emancipazioniste», come se fosse una parolaccia. Rimanendo in pochissime, fino a implodere. Attorcigliandosi a discutere di corpi ed embrioni fino a raggiungere (alcune) l'opposto estremismo: prima praticavano aborti, ora vogliono impedire ai corpi delle (altre) donne di concepire con la fecondazione assistita se non maritate, o di abortire.
E così, il femminismo italiano ha avuto durata breve, è stato marginale. E il suo ripiegamento riflessivo ha contribuito a danneggiare le donne lavoratrici, le donne madri, le donne omosessuali, le donne avventurose, e tutte le minoranze. Anche grazie allo scarso femminismo, in Italia non si è mai creata una vera cultura del politicamente corretto. Che non è (solo) una censura sui battutoni; è soprattutto rispetto per l'altro/a. Che altrove ha portato alle donne vita più facile e fatiche domestiche condivise; che (per dire) fa sì che negli Stati Uniti ci sia un presidente nero e un'icona dell'opposizione femmina e di estrema destra. Della cui assenza in Italia, tutte e tutti stiamo pagando il prezzo: razzismi multipli, misoginia e maschilismi fieri, insensibilità collettiva a comportamenti privati di persone pubbliche che altrove porterebbero crisi e dimissioni. L'assenza di political correctness femminista ha poi legittimato un sessismo ordinario capillare, negli uffici, nelle famiglie, nelle relazioni. Tanto comunemente tollerato e incoraggiato da far accettare che la liberazione sessuale venisse trattata come un grosso business.
Più redditizio che altrove, è noto. Perché non controbilanciato da movimenti di opinione femminili (e non) che criticassero l'onnipresenza di seni e glutei, la cooptazione in base all'età e all'aspetto, le continue discriminazioni. Anche per questo — Tamaro giustamente lo denuncia — siamo circondati da ragazzine e bambine aspiranti veline. Anche per questo non abbiamo modelli femminili validi, magari non attraenti, che non siano showgirls. Non per questo le ragazzine sono più promiscue, come lamenta Tamaro. Lo sono meno di tante adolescenti della sua generazione, e della mia. Sono meno libere di dieci o venti anni fa; non sono libere di sognare e sperare, soprattutto (specie le non-aspiranti veline). E non solo per colpa della recessione. Per colpa di una società asfittica, che tende a guardare indietro, che non conosce e non accetta nuove figure femminili. «Siamo sole», conclude Tamaro. Sì, lo siamo. Le ragazze precarie, le madri stanche, le donne che devono abortire e non trovano un ginecologo non obiettore, le sedicenni che non sanno dove andare a chiedere un contraccettivo e dipendono dal preservativo dei partner, le straniere abbandonate a se stesse, sono solissime. C'è bisogno di più femminismo, forse, casomai.
Maria Laura Rodotà19 aprile 2010(ultima modifica: 21 aprile 2010)
"Noi donne, meno libere di vent'anni fa
Una società asfittica che guarda indietro, non accetta nuove figure femminili.
E' vero: «Siamo sole»
Il movimento femminista non ha liberato le donne, scriveva sabato sul Corriere Susanna Tamaro. Ed è vero. Per essere libere bisogna avere opportunità, e diritti. E invece: dopo le prime, vitali (per molte donne sì, vitali) conquiste, come il diritto a interrompere una gravidanza, le femministe-guida d'Italia sono andate dove le portava l'ombelico. Invece di battersi per quote sul lavoro e asili nido, hanno passato svariati anni a discutere di «pensiero della differenza». Lasciandosi indietro milioni di donne che avrebbero appoggiato (avrebbero beneficiato di) battaglie liquidate come «emancipazioniste», come se fosse una parolaccia. Rimanendo in pochissime, fino a implodere. Attorcigliandosi a discutere di corpi ed embrioni fino a raggiungere (alcune) l'opposto estremismo: prima praticavano aborti, ora vogliono impedire ai corpi delle (altre) donne di concepire con la fecondazione assistita se non maritate, o di abortire.
E così, il femminismo italiano ha avuto durata breve, è stato marginale. E il suo ripiegamento riflessivo ha contribuito a danneggiare le donne lavoratrici, le donne madri, le donne omosessuali, le donne avventurose, e tutte le minoranze. Anche grazie allo scarso femminismo, in Italia non si è mai creata una vera cultura del politicamente corretto. Che non è (solo) una censura sui battutoni; è soprattutto rispetto per l'altro/a. Che altrove ha portato alle donne vita più facile e fatiche domestiche condivise; che (per dire) fa sì che negli Stati Uniti ci sia un presidente nero e un'icona dell'opposizione femmina e di estrema destra. Della cui assenza in Italia, tutte e tutti stiamo pagando il prezzo: razzismi multipli, misoginia e maschilismi fieri, insensibilità collettiva a comportamenti privati di persone pubbliche che altrove porterebbero crisi e dimissioni. L'assenza di political correctness femminista ha poi legittimato un sessismo ordinario capillare, negli uffici, nelle famiglie, nelle relazioni. Tanto comunemente tollerato e incoraggiato da far accettare che la liberazione sessuale venisse trattata come un grosso business.
Più redditizio che altrove, è noto. Perché non controbilanciato da movimenti di opinione femminili (e non) che criticassero l'onnipresenza di seni e glutei, la cooptazione in base all'età e all'aspetto, le continue discriminazioni. Anche per questo — Tamaro giustamente lo denuncia — siamo circondati da ragazzine e bambine aspiranti veline. Anche per questo non abbiamo modelli femminili validi, magari non attraenti, che non siano showgirls. Non per questo le ragazzine sono più promiscue, come lamenta Tamaro. Lo sono meno di tante adolescenti della sua generazione, e della mia. Sono meno libere di dieci o venti anni fa; non sono libere di sognare e sperare, soprattutto (specie le non-aspiranti veline). E non solo per colpa della recessione. Per colpa di una società asfittica, che tende a guardare indietro, che non conosce e non accetta nuove figure femminili. «Siamo sole», conclude Tamaro. Sì, lo siamo. Le ragazze precarie, le madri stanche, le donne che devono abortire e non trovano un ginecologo non obiettore, le sedicenni che non sanno dove andare a chiedere un contraccettivo e dipendono dal preservativo dei partner, le straniere abbandonate a se stesse, sono solissime. C'è bisogno di più femminismo, forse, casomai.
Maria Laura Rodotà19 aprile 2010(ultima modifica: 21 aprile 2010)
Non è un paese per donne
"Il nostro paese sottolinea a parole il valore della famiglia, ma non fa granchè per sostenerlo effettivamente..."
Cristina Melchiorri
Sono una giovane manager, ho trentadue anni e lavoro nel settore vendite di una importante azienda italiana. Sono entrata con uno stage non retribuito dopo la laurea in economia a Milano, mi sono mantenuta agli studi con lavoretti vari e ho fatto la gavetta nella mia azienda per otto anni, raggiungendo con molti sacrifici la mia attuale posizione di responsabile del servizio vendite.Oggi posso dire di essere apprezzata dai miei colleghi e dai miei capi. Ma forse dovrei dire fino a ieri, fino a quando cioè ho comunicato in azienda di essere incinta.All’improvviso, tutte le mie qualità di intelligenza, tenacia, flessibilità e capacità di raggiungere i risultati, che mi venivano riconosciute come punti di forza, si sono azzerate… Il mio capo mi ha persino detto: ”Darai le dimissioni, no?” Io non ci penso proprio, non vedo perché non posso essere una brava manager e al tempo stesso una brava madre! Ma ci sono rimasta male….Alessandra (Milano)
"Il nostro paese sottolinea a parole il valore della famiglia, ma non fa granchè per sostenerlo effettivamente..."
Cristina Melchiorri
Sono una giovane manager, ho trentadue anni e lavoro nel settore vendite di una importante azienda italiana. Sono entrata con uno stage non retribuito dopo la laurea in economia a Milano, mi sono mantenuta agli studi con lavoretti vari e ho fatto la gavetta nella mia azienda per otto anni, raggiungendo con molti sacrifici la mia attuale posizione di responsabile del servizio vendite.Oggi posso dire di essere apprezzata dai miei colleghi e dai miei capi. Ma forse dovrei dire fino a ieri, fino a quando cioè ho comunicato in azienda di essere incinta.All’improvviso, tutte le mie qualità di intelligenza, tenacia, flessibilità e capacità di raggiungere i risultati, che mi venivano riconosciute come punti di forza, si sono azzerate… Il mio capo mi ha persino detto: ”Darai le dimissioni, no?” Io non ci penso proprio, non vedo perché non posso essere una brava manager e al tempo stesso una brava madre! Ma ci sono rimasta male….Alessandra (Milano)
Milano / Dignità delle donne e lavoro - La casa di vetro
Il corpo delle donne e la carriera in un ciclo di incontri il 29 aprile, 20 maggio e 10 giugno presso la Casa di vetro
inserito da Redazione
E' passato un anno dall'esplosione del caso Noemi Letizia e dalla pubblica denuncia di Veronica Lario sul «ciarpame politico» nel nostro Paese. Dodici mesi costellati da scandali giudiziari che hanno evidenziato la "istituzionalizzazione" di donne-tangenti e il proliferare di esempi di giovani disposte a tutto pur di guadagnare un posto al sole del successo. Cosa hanno detto e fatto le altre donne, cioè la stragrande maggioranza dell'universo femminile italiano, che faticano, studiano, si impegnano, lottano per conquistare posizioni nel mondo del lavoro e rivendicare dignità e rispetto? Se ne parlerà a Milano, nella Casa di vetro animata da Maria Cristina Koch (via Sanfelice, 3 www.lacasadivetro.com) in un ciclo di incontri previsti per il 29 aprile, 20 maggio e 10 giugno. Proprio in questi giorni in Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha dichiarato che «è certamente importante che si ponga un argine a questo dilagare della tendenza alla sottovalutazione o all'aperto disprezzo della dignità femminile». E l'Italia è scesa al 72° posto nella classifica mondiale delle Pari opportunità. Che cosa è finito di tutto questo sui giornali e, soprattutto, in televisione? A queste domande cercheranno di rispondere il fotografo e artista sociale Ico Gasparri e la giornalista Paola Ciccioli nell'appuntamento del 29 aprile. Gasparri è autore di una ricerca unica nel suo genere sull'immagine femminile imposta silenziosamente dai manifesti stradali e l'artista ne ha documentato il crescendo sessista negli ultimi 20 anni.Paola Ciccioli, invece, è una giornalista che, insieme con altre operatrici dell'informazione, ha fondato il gruppo Donne della realtà, del quale oggi fanno parte anche colleghi maschi e docenti universitarie. Il gruppo, che ha anche un blog con lo stesso nome, si occupa di evidenziare la carente rappresentazione nei media italiani delle problematiche riguardanti l'universo femminile e si propone come pungolo perché all'interno delle redazioni le professioniste si rendano protagoniste di proposte che diano conto dell'effettivo impegno delle donne nella nostra società. L'incontro di giovedì 29 aprile inizia alle 18,30.
Il corpo delle donne e la carriera in un ciclo di incontri il 29 aprile, 20 maggio e 10 giugno presso la Casa di vetro
inserito da Redazione
E' passato un anno dall'esplosione del caso Noemi Letizia e dalla pubblica denuncia di Veronica Lario sul «ciarpame politico» nel nostro Paese. Dodici mesi costellati da scandali giudiziari che hanno evidenziato la "istituzionalizzazione" di donne-tangenti e il proliferare di esempi di giovani disposte a tutto pur di guadagnare un posto al sole del successo. Cosa hanno detto e fatto le altre donne, cioè la stragrande maggioranza dell'universo femminile italiano, che faticano, studiano, si impegnano, lottano per conquistare posizioni nel mondo del lavoro e rivendicare dignità e rispetto? Se ne parlerà a Milano, nella Casa di vetro animata da Maria Cristina Koch (via Sanfelice, 3 www.lacasadivetro.com) in un ciclo di incontri previsti per il 29 aprile, 20 maggio e 10 giugno. Proprio in questi giorni in Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha dichiarato che «è certamente importante che si ponga un argine a questo dilagare della tendenza alla sottovalutazione o all'aperto disprezzo della dignità femminile». E l'Italia è scesa al 72° posto nella classifica mondiale delle Pari opportunità. Che cosa è finito di tutto questo sui giornali e, soprattutto, in televisione? A queste domande cercheranno di rispondere il fotografo e artista sociale Ico Gasparri e la giornalista Paola Ciccioli nell'appuntamento del 29 aprile. Gasparri è autore di una ricerca unica nel suo genere sull'immagine femminile imposta silenziosamente dai manifesti stradali e l'artista ne ha documentato il crescendo sessista negli ultimi 20 anni.Paola Ciccioli, invece, è una giornalista che, insieme con altre operatrici dell'informazione, ha fondato il gruppo Donne della realtà, del quale oggi fanno parte anche colleghi maschi e docenti universitarie. Il gruppo, che ha anche un blog con lo stesso nome, si occupa di evidenziare la carente rappresentazione nei media italiani delle problematiche riguardanti l'universo femminile e si propone come pungolo perché all'interno delle redazioni le professioniste si rendano protagoniste di proposte che diano conto dell'effettivo impegno delle donne nella nostra società. L'incontro di giovedì 29 aprile inizia alle 18,30.
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