sabato 17 dicembre 2011

L'OSSESSIONE DEL CONTROLLO



La mania dei genitori moderni di avere il controllo assoluto sui figli che inizia dal momento in cui vengono a conoscenza della gravidanza.
Ho letto recentemente su Internazionale, un favoloso articolo di Katie Roiphe pubblicato sul Finanacial Times sull’illusione del controllo da parte dei genitori moderni.
Non poteva trovarmi più d’accordo.
L’ovulo viene fecondato e un neogenitore comincia il viaggio nella pianificazione del figlio perfetto.
L’aumento dell’età media del primo figlio nelle coppie moderne può essere uno dei motivi per cui i neogenitori intraprendono il viaggio all inclusive nel villaggio del genitore ineccepibile; si chiamano artisti per decorare la cameretta del nascituro, si prenotano vacanze con mini-club esclusivi, si fanno preiscrizioni per gli asili migliori.
La mania del controllo mista a moralismo e preparazione al sacrificio inizia già dalle prime settimane di gravidanza, dilaga rapidamente il terrore di commettere qualche fatale errore che comprometterà irreversibilmente il futuro neonato; ci sentiamo in colpa per un goccio di vino a tavola, veniamo guardate con diffidenza se gustiamo una fetta di salame o non laviamo la verdura fresca nel bicarbonato.
Sfogliamo riviste specializzate che propongono immacolate camerette dai lindi rivestimenti, passeggini dell’ultima generazione e coltiviamo inconsciamente l’immagine del pupo perfetto dentro quella stanza perfetta.
Ancor prima che nasca abbiamo già comprato paracolpi, paraspigoli, copri prese, sterilizzatori e sigillatori di pannolini puzzolenti, nascondiamo ogni oggetto contundente nel giro di qualche chilometro e accatastiamo, spendendo capitali pur di non inventare niente, scatole di giochi che intrattengano il piccolo in ogni secondo di veglia.
Bisogna proteggere il bambino dal freddo, dai germi, dall’umidità, dalle cadute, dagli odori, dalla noia, da se stesso.
Ma proteggerlo non vuol dire risparmiargli la bruttura del mondo che lo farà crescere, la solitudine e la noia che lo renderanno più inventivo, la cattiveria degli amici che lo renderanno avveduto.
In Italia c’è una battaglia senza quartiere a germi e batteri, i saponi all’Amuchina registrano il tutto esaurito nei supermercati e la politica del togliersi le scarpe prima di entrare in casa di bambini sta spopolando anche tra i miei amici, una volta ben poco igienisti.
Non serve a niente ricordare che un po’ di sana sporcizia aiuta di più a crescere un figlio sano che non farlo vivere in un ambiente asettico; la crociata del pulito non può essere fermata.
Il problema vero è che questi genitori non riescono a staccarsi dal permanente ruolo di genitori correndo il rischio di fondere il concetto di età adulta con genitorialità; agli appuntamenti diventa sempre più raro poter esprimere un concetto o conversare “da grandi” perché l’attenzione è sempre rivolta ai figli, bisogna vedere cosa stanno combinando, soffiargli il naso quando cola, fargli rispettare il politically correct del bambino educato, soddisfare ogni estenuante capriccio dei sempre più succubi bambini.
E’ invece curioso come la mia generazione sia cresciuta nel fumo passivo di genitori giovani e allegramente incoscienti, scolavo i bicchieri con i fondi di Lambrusco che mio nonno mi faceva assaggiare, non avevo para spigoli a proteggere la mia testa e non avevo scarpine anatomiche da settanta euro il paio, eppure sono venuta su lo stesso.
Il brutto mondo l’ho conosciuto attraverso le prepotenze di amici e le ingiustizie dei famigliari, vivevo in cortile con i bambini degli altri palazzoni popolari e mia nonna si sgolava quando doveva chiamarmi, e da qualche parte spuntavo, puzzolente e sudata, spompata dal cemento di quel far west di periferia.
Quando i miei genitori invitavano a casa gli amici, noi bambini potevamo fare quel che ci pareva, mentre i grandi giocavano a carte fino a tardi noi imparavamo a conoscere il mondo dei grandi ed i primi pruriti.
Non c’erano allora i manuali che riempiono oggi le librerie dai titoli tanto ridicoli quanto assurdi: “un padre quasi perfetto”, “nascere genitori”, diciamo che forse si cercava di usare il buon senso e la legge del come si può; la vita dei bambini non era satura di attività didattiche, musicali, artistiche o sportive, vigeva la regola non scritta del tempo morto e ognuno pensava a sé.
La giornalista si chiede, ed io con lei, se tutto questo pianificare e controllare ogni aspetto della vita dei nostri figli non nasconda qualche delusione o rimpianto negli adulti stessi, un matrimonio che non funziona più come un tempo, un sogno riposto troppo alla svelta nel cassetto, un desiderio di avventura.
Lasciamo che l’istinto dei nostri figli li guidi, non sarà una sbucciatura o un raffreddore in più a renderli meno forti mentre aiutarli a saper superare le delusioni e a conoscere le imperfezioni della vita gli darà gli strumenti per diventare adulti più felici.
inserito da erica vecchione---NOI DONNE
(16 Dicembre 2011)

sabato 5 novembre 2011

Dov'è la politica?


Sono una donna che sente il bisogno di condividere alcune riflessioni, in ordine sparso e per mancanza di spazio e tempo anche un po’ ‘schematizzate’.
Una donna che non ama ragionare per categorie, per la quale l’età, la fede, l’identità sessuale non sono categorie della politica, se non in quanto permettono di creare condizioni di pari opportunità e dignità per tutte. Una donna di sinistra che è cresciuta credendo nella politica come ‘servizio’, poi abbiamo imparato anche il valore della politica come ‘desiderio’ e dunque perché non ‘desiderio di rendere un servizio’ nella e alla società della quale facciamo parte, cioè noi stesse, con un modo di fare politica diverso, il valore aggiunto della politica ‘agita’ dalle donne.
La politica, appunto, quella che mi aspettavo di trovare nel Congresso UDI di Bologna, declinata in discussione, per quanto aspra potesse essere, confronto e proposte sul tempo e la realtà nella quale viviamo. Mi aspettavo di sentire le voci delle donne dell’UDI sulla proposta di legge del 50&50, sulla riforma delle pensioni che penalizzerà ancora una volta pesantemente le donne, sulle giovani done che rischiano do non lavorare mai, sul tema della conciliazione di tempi ed orari, e potrei continuare a lungo su tutte le questioni che riguardano la ‘qualità e dignità della vita’ delle donne ( e non solo). Ebbene, tranne pochi interventi, quello della Direttrice di Noi Donne, cui ho voluto scrivere in quanto da sempre punto di riferimento per l’UDI, di alcune donne di Roma, di una donna dell’UDI di Catania e perfino di una donna colombiana e dunque ‘lontana’ dalla realtà italiana e poche altre di cui non ricordo il nome che hanno cercato in qualche modo di ‘mettere i piedi nel piatto’, della politica ho perso quasi subito le tracce. Anzi, ho sentito con dolore spirare quasi subito il vento dell’antipolitica, in nome di una malintesa (a mio parere) autonomia tout court dai partiti e organizzazioni che della politica fanno la loro ragion d’essere, (lo stesso vento che da troppi anni spira a raffiche impietose sul nostro Paese). L’episodio emblematico di tutto ciò è stato il rifiuto a confrontarsi nel congresso con donne delle istituzioni, prima ancora che della politica, Rosy Bindi una per tutte, perdendo così l’occasione di manifestare loro insoddisfazioni e istanze, di ‘inchiodarle’ alle proprie responsabilità e perché no, contestarle per l’eventuale mancato impegno ‘dalla parte delle donne’.
Invece ho visto giovani donne fare della giovane età un valore assoluto, quasi proclamandosi ‘rottamatrici ‘ dell’UDI ma non le ho sentite parlare di politica, ne ho sentite altre fare interventi al limite dell’intimidazione verso le, non poche, voci critiche sugli ultimi anni di gestione politica dell’UDI, che per qualcuna arriva ad identificarsi con la persona della Delegata Nazionale in carica fino al Congresso (ma il partito ad personam non c’è già?), ho sentito parlare di ‘rapporti personali’come motore dell’agire politico, di madri che ‘uccidono’ le figlie, di donne che hanno fatto la storia dell’UDI come Medee incapaci di mettersi da parte. La ‘critica’ è stata definita ‘delegittimazione’, quando non ‘aggressione’ e (sic) ‘vendetta’.
Fino ad assistere ad un’invereconda mise en scéne dell’indignazione, (verso chi o cosa non l’ho ancora capito e me ne scuso…) che si sottraeva subito dopo al confronto aperto in sede di dibattito, dimostrando così di aver ‘rottamato’ anche i fondamentali della democrazia.
Si potrebbe pensare che “la situazione è grave ma non è seria” ma invece a mio parere è terribilmente seria, anzi pericolosa e triste perché ho visto in due giorni quello che non mi sarei aspettata, una deriva culturale e di linguaggio, specchio in piccolo di quella che affligge il nostro Paese, un metodo che si è fatto ahimè sostanza in quest’occasione e che mi ha ricordato la peggior politica e gestione di potere declinata al maschile.
Mentre intorno a noi il Paese brucia…
O sono l’unica ingenua donna di 50 anni ma con un suo passato politico che crede che l’UDI sia un’organizzazione che fa politica nel mondo reale e non in un altrove tanto ‘puro’ quanto ‘indistinto’ , autoreferenziale e incapace di incidere sulle cose, nello stesso mondo reale di partiti ed organizzazioni con i quali ( non con tutti) si troverà in sintonia a volte, altre in aperto disaccordo.
Sono l’unica donna che vuole un’UDI che dia voce alle donne, “amiche, complici, amanti” o meno, che dia loro proposte, risposte un’UDI insomma che come tutte noi dovremmo fare, ‘si sporchi le mani’?
Marilù Cafiero, Roma
(04 Novembre 2011)

venerdì 7 ottobre 2011

Barletta: un evento che ci riguarda tutte ci responsabilizza ancora di più



Un commento alla morte delle operaie tessili di Barletta rimaste coinvolte nel crollo di una palazzina.
Da sempre, ogni 8 marzo in un modo o nell’altro qualcuno racconta l’origine di quella giornata, che fra critiche e consensi comunque ha accompagnato la nostra vita e impegno di donne. Si dice, si racconta che la ricorrenza ebbe origine o fu dedicata alle operaie di una fabbrica tessile di New York che morirono bruciate, dopo giorni e giorni di sciopero… Questa storia mi è tornata in mente mentre leggevo le cronache della tragedia di Barletta, mentre mi domandavo come, in quale modo queste morti tragiche di giovani donne potevamo non solo accompagnarle con il nostro dolore e la nostra rabbia ma non abbandonarle, accettando che come tante altre terribili notizie in pochi giorni svaniscano dalla cronaca e dalla storia; mentre sentivo il bisogno urgente di dire o scrivere qualcosa quasi per dire seppur con parole senza originalità che questo tragico avvenimento riguardava anche me.
Matilde, Tina, Antonella, Giovanna e Maria la figlia dei proprietari del “laboratorio” è stato scritto e detto in decine di articoli e lo ripeto soltanto, erano donne giovani come tante altre, che mentre noi leggiamo e scriviamo continuano piegate al loro lavoro in infiniti scantinati d’Italia, pensando che a loro non capiterà, magari continuando a scherzare, parlare, raccontarsi per far passare il tempo del lavoro nel migliore dei modi, come facevano le mondine che per darsi forza cantavano canzoni arrivate a noi come testimoni di un coraggio e di una vitalità che non s’arrende. La tragedia di Barletta è grande, enorme, umanamente e simbolicamente, per questo, per essere un piccolo spaccato di miglia di altre donne che oggi nel nostro paese al Sud soprattutto ma non solo si adattano si arrangiano ad accettare ogni condizione, senza neanche pensare di contestare perché comunque: c’è almeno “quel poco” con cui aiutare la famiglia o il proprio stesso futuro. Una storia che va detto non è certo nuova, se pensiamo per quanti decenni si è parlato dei caporali che “radunavano le donne" in pulmini, quando gli immigrati erano di là ancora da venire e le portavano a lavorare nelle campagne a prezzi stracciati analoghi a quelli delle nostre operaie.
Ma proprio perché si è lottato tanto per migliorare la condizione dei lavoratori,delle donne abbiamo pensato per anni che alcune pratiche di sfruttamento totale potessero essere superate e che le condizioni fossero cambiate per sempre.
Invece in questa Italia che decade e affonda, proprio sul lavoro come sottolinea efficacemente la copertina di NOI DONNE, la condizione delle donne nella società, nel lavoro è divenuta,a loro spese, la cartina di tornasole del fallimento di un paese, governato in modo indecente. Ma rabbia, malessere dolore non possono farci fermare alla constatazione dei fatti senza pensare a che fare, cosa dire. E allora, non a caso ho scelto NOI DONNE per dire in qualche modo anche la mia e unirmi alla lettera aperta che Tiziana Bartolini ha rivolto a Susanna Camusso ed Emma Marcegaglia dal titolo: Lavoro,Un patto di donne.
Nella lettera di Tiziana vi è una frase che oggi pensando a Barletta appare profetica: "Il lavoro femminile è sottopagato e sempre più precario,anche quando le donne esprimono professionalità qualificate…” Le nostre donne di Barletta credo che dobbiamo dire che svolgessero professionalità qualificate perché solo per questo si riesce a fare bene in condizioni così precarie, in un “impresa manifatturiera" di cui oggi riesce difficile dire tutto il male che andrebbe detto e che sappiamo, per non infierire sul dolore di genitori che lì hanno perso la figlia Donne che se ci fossero state le condizioni solo di qualche anno fa sicuramente sarebbero state bene in alta sartoria ..per produrre quella qualità che ci ha resi famosi nel mondo per i nostri marchi e che oggi viene sostituita in tanti casi da una rincorsa a fare, seppur con tutto il rispetto, quel che fanno i laboratori dei cinesi. Pur di poter scrivere in una concorrenza al ribasso Made in Italy.
Che fare allora? Rafforzare il confronto fra le donne, in ogni realtà dove sia possibile ottenere dei risultati, far crescere la consapevolezza femminile, chiedere a chi ha ruoli di usarli, essere consapevoli che siamo tutte in gioco e “ricacciate” indietro ma anche che come donne abbiamo una forza,una capacità da spendere .. quella forza che chi sa con quanta convinzione: Matide, Tina, Antonella, Giovanna e Maria mettevano nel proprio lavoro e nel proprio impegno convinte di farcela.
E ce l’avrebbero fatta se una società in tante sue espressioni, così poco seria, superficiale, decadente, colpevole tanto da annullare il buono che pure c’è, come la nostra, non avesse ritenuto che le crepe di un palazzo possono essere, non così gravi. Di crepe per altro considerate ininfluenti siamo circondati ma questo governo non sembra preoccuparsene più di tanto mentre il mondo ci guarda sgomento e incredulo..
inserito da paola ortensi--Noi Donne
(05 Ottobre 2011)

lunedì 5 settembre 2011

Il coraggio di Concetta


l coraggio di Concetta affogato in un bicchiere di acido muriatico
Alcune donne, che avevano deciso di collaborare con gli inquirenti, si sono suicidate con l'acido muriatico, vanificando il coraggio di scegliere di schierarsi contro le organizzazioni criminali d'appartenenza.
inserito da Maddalena Robustelli
Sono trascorsi pochi giorni dalla morte della trentunenne Concetta Cacciola, collaboratrice di giustizia, a seguito delle tremende lesioni interne causate dall’acido muriatico ingerito. La scorsa primavera aveva deciso di raccontare le storie della malavita calabrese, vissute indirettamente perché nipote del boss Gregorio Bellocco e moglie di Salvatore Figliuzzi, altro esponente delle organizzazioni criminali locali. Il programma di protezione concessole dallo Stato aveva determinato l’allontanamento dai figli, confinata com’era in una località segreta del Nord. Ad agosto, però, è rientrata a Rosarno per rivedere i suoi cari e di lì a pochi giorni è stata ritrovata morta suicida. Per dirla con le parole di don Marcello Cozzi, rappresentante in Basilicata dell’associazione Libera, ci troviamo di fronte ad una doppia sconfitta dello Stato perché, se realmente Concetta ha deciso di morire, è probabile che questa scelta sia stata suffragata da un insufficiente programma di protezione, che l’aveva lasciata sola con la sua decisione di collaborare con la giustizia; diversamente, se è stata “suicidata”, occorrerà che ci interroghi sull’effettiva qualità delle misure poste a garanzia della sua vita. Questa seconda ipotesi appare quantomeno da prendere in considerazione, perché nel giro di 5 mesi ben 3 donne, che avevano deciso di infrangere il muro di omertà imposto dalle famiglie malavitose, hanno subito la stessa morte, ossia per il tramite dell’acido muriatico. Così, come per Concetta, è stato per Orsola Fallara, dirigente del settore bilancio e finanza del comune di Reggio Calabria, e per Santa Buccafusca, moglie di un boss delle cosche vibonesi. Sono proprio le medesime modalità di morte a gettare ombre su questi suicidi, perché fa specie che chi decida di togliersi la vita utilizzi un mezzo che causa sofferenze e dolori lancinanti, prima che si esali l’ultimo respiro. Parrebbe un messaggio occulto da far comprendere a quante abbiano la tentazione di diventare informatrici, consentendo agli inquirenti, per il tramite dei loro racconti, di ottenere risultati positivi sul fronte della lotta e del contrasto alle organizzazioni criminali. Adriana Musella, presidente di Riferimenti, il Coordinamento nazionale antimafia, recentemente ha chiesto alle donne di mafia un atto di coraggio per emanciparsi dai vincoli con le “famiglie” malavitose, in nome dei loro figli. Evidentemente si è di fronte ad una parziale presa di coscienza sul tema in questione, determinata dalla consapevolezza e la volontà di contribuire a costruire un mondo ed una vita migliore per sé e per i propri congiunti. Ne è prova evidente Denise Cosco, figlia diciottenne di Lea Garofalo, collaboratrice di giustizia, uccisa nel 2009 alla periferia di Milano e sciolta nell’acido per ordine del suo compagno, Carlo Cosco. Questa giovane donna ha deciso di onorare la memoria ed il coraggio della madre costituendosi parte civile contro il padre ed il sistema che egli rappresenta, perché, come scrisse Denise in un sms, non sapeva più cosa fare. “Così fanno fuori pure me, devo stare zitta e basta”, ma quel “basta” deve esserle apparso un macigno così tremendamente pesante da farle perdere ogni speranza nel futuro. Lei che, invece, vuole essere una ragazza normale con i suoi diciotto anni, desiderosa di aprirsi ad un mondo normale che non ha mai conosciuto, costretta, come è stata, o a nascondere la sua infanzia con la madre sotto il programma di protezione, o ad annullarsi come adolescente sotto le leggi dell’antistato, perché dopo l’uccisione di Lea fu obbligata a ritornare da Milano in Calabria. Denise con un atto di coraggio è riuscita a superare il tormento della condizione ambivalente di figlia ed orfana di mafia e costituendosi parte civile nel processo contro il padre spera di assicurare a sé ed ai propri figli un futuro di vita e non di morte. La sua volontà, però, da sola non basta, occorre che la sua decisione sia suffragata da un adeguato sistema di garanzie a tutela della sua incolumità. Non vorremmo che mai assaggiasse l’acido muriatico, come è stato in questi ultimi mesi per Concetta, Orsola e Santa e qui entra in gioco la credibilità dello Stato, che deve assicurare a chi sceglie di collaborare con gli inquirenti una vita sufficientemente dignitosa. Concetta, probabilmente, è morta perché, ritornata in Calabria per rivedere i figli, lasciati al momento di entrare sotto il programma di protezione, non ce l’ha fatta a sopportare le pressioni causate dalla sua scelta di contravvenire alle regole dell’omertà malavitosa. Un fenomeno nuovo, sfuggito al controllo dei clan criminali, rischia conseguentemente di trovare le istituzioni pubbliche incapaci di governarlo e atte a vanificare l’audacia messa in campo da queste donne nella costruzione di un mondo nuovo per i loro cari e di riflesso per tutti noi. Denise, pensando al suo presente, ha detto di recente: “ripongo una grande speranza in questo processo”, la speranza di una rinascita avvenuta nel nome della madre e di quante come lei hanno deciso o decideranno di non essere corresponsabili di un sistema fatto di soprusi, violenza e morte.


sabato 27 agosto 2011

Ma le donne no. Come si vive nel paese più maschilista d'Europa



“La libertà è avere dei diritti – scrive Caterina Soffici – e delle leggi che li tutelano. La libertà è quando puoi reagire al sopruso. Quando puoi farcela camminando sulle tue gambe, senza dover chiedere favori...
inserito da Loredana Massaro
Leggete questo libro. Leggetelo tutto d’un fiato. Lo leggano soprattutto le donne ma lo leggano anche gli uomini. Uno dei concetti che mi ha colpita e che mi vado ripetendo ormai da giorni, è questo: “banalmente persone”. Così scrive la giornalista Caterina Soffici, perché non siamo considerate “persone” ma siamo considerate “donne”, persone solo nell’accezione della differenza di genere. È così che ci considerano gli uomini ma è così che si considerano anche tante donne.

Dal dopoguerra in poi in Italia abbiamo operato una sorta di marcia indietro, l’uguaglianza è solo una bella parola, se le banali persone, di cui prima parlavamo, non sanno che farsene. Ecco l’involuzione dei nostri giorni e un duplice problema: o non abbiamo voluto difendere il principio di uguaglianza per pigrizia, per furbizia, per comodo o, in seconda ipotesi, i poteri forti che reprimono, sono troppo forti per essere sconfitti.

Le donne che oggi si pongono il problema sono viste come delle “passatiste”, un folklore fuori luogo, il Sessantotto è finito, gli anni Settanta sono andati e per chi avesse la buona volontà di pensarci su, c’è un sorriso di compatimento. Salvo poi indignarsi per l’ultimo disumano fatto di cronaca che è accaduto proprio sotto casa nostra. Niente di cui meravigliarsi, una società violenta, che esclude, genera violenza e tocca a noi porre fine al circolo vizioso.

E per iniziare le discriminazioni sui posti di lavoro. Le donne vengono pagate meno degli uomini o impossibilitate ad accedere ai ruoli di dirigenza. Qualcuna ce l’ha fatta. Lilly Ledbetter è una donna che da sola, è riuscita a vincere una causa contro una delle multinazionali più potenti d’America, è fautrice di una legge contro le discriminazioni sul lavoro, la prima legge firmata tra orgoglio e commozione dal presidente degli Stati Uniti, Obama Barack, il 29 gennaio 2009, a ridosso del mandato presidenziale. I due si abbracciano e scendono le lacrime alle dieci e mezza di un freddo mattino a Washington. Un coraggio e una forza morale tali da vincere un colosso come la Goodyear.

In tema di diritto del lavoro, il divario che emerge tra la giurisprudenza italiana e quella emanata dai parlamenti di paesi europei a noi tanto vicini, lascia davvero sbalorditi. Fantascienza e medioevo convivono a pochi chilometri di distanza, separati da una fitta rete di leggi e sostegni economici che proteggono le donne sul lavoro: leggi contro il mobbing, contro la discriminazione delle madri, leggi sul part-time, periodo di aspettativa fino a tre anni per le neomamme, congedo per paternità fino a dodici mesi, assegni familiari “veri”, garanzia dell’80% o del 100% della busta paga nei periodi di malattia del figlio, defiscalizzazione sul lavoro di colf e baby-sitter, la certezza di un posto all’asilo nido, sussidi pubblici a sostegno della natalità, promozioni e avanzamenti di carriera comunicati addirittura durante la maternità.

Intanto in Italia quella che la ministra Stefania Prestigiacomo ha cercato di far passare in Parlamento fino alle lacrime, è la legge sulle quote rosa, le votano contro e la legge non passa. Sarebbe potuta essere una insperata opportunità per le donne italiane e invece finisce con la bocciatura e l’elargizione dei sorrisi di Berlusconi a destra e a manca dell’aula parlamentare a significare “faremo come se…” e il pianto della Pdl Prestigiacomo che degli anni Settanta, ahimé, non ha davvero nulla. E correlato, il velinismo e la prostituzione che conquista seggi nel parlamento italiano, seggi nel parlamento europeo, conquista ministeri. Così se il parlamento non approva le leggi sulle quote rosa, riserva a donne posti (pochi!) in parlamento, ossia li riserva a donne che elargiscono i loro favori agli uomini politici italiani. Qui forse qualcuno reagisce al torpore generale, non fosse altro per quel retaggio cattolico e un po’ bigotto che ogni italiano e italiana si trascina dietro da sempre.

Infine la pubblicità e i mass media, la dittatura della bellezza e della giovinezza, il corpo delle donne usato come oggetto per vendere oggetti sessuati, per esempio abiti indecenti, che spingono a vestirci in modo altrettanto indecente. Le immagini pubblicitarie che le multinazionali diffondono a valanga nel nostro paese e che, in assenza di divieti legislativi e regolamentazioni, operano una coercizione e una violenza morale che in altri paesi dell’Unione europea, non è permessa in quanto offensiva della dignità delle persone. Comprovati studi scientifici sulla mente umana, hanno constatato che se un messaggio arriva martellante sulla corteccia cerebrale, uomini e donne saranno portati a ritenere le false credenze come vere e quindi a farle proprie. È così che successe con la propaganda nazista contro gli ebrei.

(4 agosto 2011)

di Loredana Massaro

mercoledì 27 luglio 2011

SIAMO TUTTE NORVEGESI.

ROMA / Siamo tutte norvegesi
GIOVEDI' 28 LUGLIO A ROMA VEGLIA DI DONNE IN RICORDO DELLE VITTIME DELLA STRAGE DI UTOYA
LE DONNE DI ROMA CONDIVIDONO UN DOLORE CHE È DI TUTTE E TUTTI GLI EUROPEI,
E PARTECIPANO AL LUTTO DELLE MADRI E DEL POPOLO NORVEGESE.
NO ALL'INTOLLERANZA E ALL'ODIO XENOFOBO.
PORTA UN FIORE BIANCO E UNA CANDELA.
GIOVEDÌ 28 LUGLIO 2011, ORE 19
DAVANTI ALL'AMBASCIATA DI NORVEGIA, VIA SAN DOMENICO 1
E’ stata promossa da un cartello di associazioni e gruppi di donne della Capitale, la Veglia Cittadina in memoria dei Ragazzi e delle Ragazze Norvegesi, vittime incolpevoli della strage perpetrata con folle disegno criminale nell’isola di Utoya. “Un atto dovuto”, dicono le promotrici, “per condividere un dolore che è di tutte e tutti gli Europei, per essere vicine alle madri ed al popolo norvegese in lutto, ma anche un atto di denuncia e di resistenza contro l’intolleranza e la xenofobia che cerca di seminare l’odio in Europa. Il Novecento ha già vissuto tutti gli orrori e le tragiche conseguenze del delirio nazista, l’Olocausto e la morte di milioni di persone indifese, piccoli e grandi, sono lì a ricordarcelo. Oggi piangiamo i giovani laburisti norvegesi vittime della stessa violenza, e saremo davanti all’ambasciata norvegese con un fiore bianco e una candela a manifestare la nostra partecipazione al lutto e la nostra solidarietà”.
NOI DONNE

martedì 26 luglio 2011

Spagna: Una sentenza della Corte Suprema riconosce il lavoro domestico



Una sentenza della Suprema Corte contribuisce a fare un passo in più nel riconoscimento del lavoro domestico. La sentenza ha riconosciuto un compenso di 108.000 € ad una donna dopo quindici anni di matrimonio in regime di separazione dei beni, per i lavori svolti in casa.Per la quantificazione si è fatto ricorso al salario di una lavoratrice domestica moltiplicato per gli anni di matrimonio
La Corte ha accettato la decisione del Tribunale di primo grado di Móstoles, successivamente revocata del Tribunale Provinciale di Madrid, con la quale Maria Piedad Fa sarà ricompensata con 108.000 euro, dopo il suo divorzio per aver contribuito per quindici anni in regime di separazione dei beni alle spese familiari, con i lavori domestici e la cura della figlia.
La sentenza chiarisce che "il lavoro domestico non solo è una forma di contributo, ma costituisce titolo per ottenere un risarcimento nel momento della fine del regime".
Per la quantificazione si è fatto ricorso al salario di una lavoratrice domestica moltiplicato per gli anni di matrimonio. In questo caso la cifra è stata quantificata in 600 euro mensili. Maria Piedad Fa, laureata in legge, non ha mai esercitato una professione o qualsiasi altro lavoro durante i quindici anni di matrimonio, dedicandosi esclusivamente alle faccende domestiche e alla cura della figlia.
Il riconoscimento della Corte non crea giurisprudenza, perché occorrono ancora due decisioni in questa direzione, ma serve affinché "sia riconosciuto il lavoro svolto in casa. Un lavoro molto dimenticato" ha commentato l’avvocata Themis. Non sono mancati su Internet sprezzanti commenti a questa sentenza.
Villar-Pérez ricorda però, che il lavoro domestico è molto di più che "lavare una tazza o stirare una camicia".
Si tratta di una serie di compiti in aggiunta alla rinuncia di un’aspettativa professionale e di carriera.

giovedì 21 luglio 2011

Le donne continuano a non essere rappresentate nelle istituzioni


Politica è tutto ciò che riguarda il cittadino, il civile, il sociale, il pubblico.
Aristotele definisce la politica come “Arte e scienza del governo”. Chi viene eletto deve rappresentare tutti i cittadini, tanto gli uomini quanto le donne. Invece il panorama politico italiano scarseggia della presenza di noi donne. Attualmente nel nostro parlamento ci si limita ad una quota del 19% di donne. Senza considerare che tal misero risultato costituisce il primato nostrano di presenza femminile nei luoghi di decisione (negli anni 70 si calcolava una percentuale del solo 3%) quando, in una situazione paritaria, tale percentuale dovrebbe essere del 50%, permettendo alle donne di rappresentare un secondo occhio sul mondo. Questo divario è diretta conseguenza di un tardivo riconoscimento alle donne dei diritti fondamentali rispetto all’uomo, con un diritto al voto riconosciuto solamente nel 1946 e il diritto dell’Habeas Corpus (Nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato) già sancito nella Magna Charta Libertatum nell’Inghilterra del 1200, entra realmente in vigore per le donne con l’Articolo 9 della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948. Non dimentichiamo infine che è solo del 1996 la prima legge contro la violenza sessuale in Italia. Un’acquisizione dei diritti così lenta pone di fatto la donna in una situazione sociale diversa, di SUBALTERNITÀ’. Una risposta a questa situazione è stata la manifestazione del 13 febbraio “Se non ora quando?”. La manifestazione ha scosso il sempre più lontano mondo della politica e l’anestetizzata opinione pubblica, dimostrando con la sua straordinaria partecipazione che le donne sono diverse le une dalle altre, ma sanno parlarsi, ascoltarsi e capirsi, portando nelle piazze italiane e d’Europa un milione di persone. Siamo consapevoli che la politica fin dai tempi più antichi è sempre stata di patrocinio maschile, ma ancora oggi l’Italia, in tutti i dati forniti dalle organizzazioni internazionali e nazionali, resta un paese in cui le donne continuano a non essere rappresentate nelle istituzioni e ad avere scarse possibilità di carriera lavorativa Il rapporto 2010 sul Gender Gap del World Economic Forum pone il nostro Paese al 74esimo posto nella classifica che misura il divario di opportunità tra uomini e donne in 134 nazioni. Gli unici due settori in cui l’Italia riesce a primeggiare sono il sostegno alla maternità e l’assistenza sanitaria, ma non basta a risollevare una situazione così drammatica. Un’analisi più approfondita dimostra che le donne subiscono trattamenti discriminanti e penalizzanti in campo professionale e lavorativo. Dati alla mano, solo il 47% delle donne lavora, contro il 70% degli uomini, e si riscontra un 25-30% di differenza salariale in meno a parità di impiego (“le donne costano meno in fatto di incentivi e bonus vari”). L’incidenza del precariato delle donne è doppia rispetto all’uomo. Sono le donne le prime ad essere licenziate in caso di crisi. Inoltre molte famiglie sono monoreddito perché la donna non lavora, comportando un conseguente impoverimento economico del paese

lunedì 11 luglio 2011

La sfida delle donne per un welfare più giusto



Il futuro incomincia oggi. Le donne che in questi mesi si sono spontaneamente e capillarmente organizzate per imporsi come protagoniste visibili e riconosciute nella sfera pubblica non possono esimersi dall'interloquire con l'agenda politica ed economica che si sta definendo in questi giorni.
Non è certo un momento facile. Mentre si stanno valutando i limiti e gli arretramenti di conquiste fatte in tempi più favorevoli, si devono fare i conti con una situazione difficile sotto tutti i punti di vista.

Non si tratta solo di fare i conti con il peso delle conquiste mancate, dell'arretramento della cultura politica, dell'esasperante immobilismo di quella imprenditoriale, del permanere di un monopolio maschile quasi intoccato in tutte le sfere decisionali. Occorre anche definire una agenda economica e politica che sia equa (anche) dal punto di vista delle chance e dei costi specifici per le donne, in un contesto caratterizzato da risorse finanziarie ridotte, dove la discussione sembra riguardare esclusivamente quali diritti acquisiti colpire e quali difendere: con poco spazio per una ridefinizione dei diritti stessi e dei loro soggetti.

Per non rischiare di oscillare tra il velleitarismo e la rassegnazione del piccolo cabotaggio occorre immaginare una agenda realistica nella fattibilità ma intellettualmente e politicamente coraggiosa. Tra i punti di questa agenda mi sembra debbano stare innanzitutto una battaglia contro il monopolio di genere in tutti i posti che contano e un discorso pubblico sui diritti civili. Si tratta di riforme a costo zero dal punto di vista economico, ma molto impegnative e difficili sul piano culturale e politico. Occorre battersi per entrare nei luoghi di presa delle decisioni, ma anche per modificare i criteri formali e soprattutto informali con cui si entra. Il che comporta sorveglianza ma anche spirito (auto)critico.

Affrontare il discorso sui diritti civili è sicuramente difficile per i rapporti interni ad un movimento che si vuole trasversale, dove stanno molte anime che si differenziano in alcuni casi profondamente su temi come la riproduzione assistita, l'aborto, le disposizioni di fine vita, la sessualità. Ma se il movimento delle donne vuole essere una novità sul piano politico deve sviluppare la capacità di affrontare temi conflittuali senza dividersi e senza pretese di monopolio di verità. Se la diversità è un valore, occorre rispettarla senza imporre – anche normativamente – la propria. E viceversa lasciando a ciascuna/o la responsabilità di decidere su di sé, garantendole gli strumenti adeguati, potrebbe essere la prima radicale novità introdotta dal movimento.

Ma il movimento deve intervenire anche sulla manovra finanziaria, perché tocca questioni molto importanti per la vita pratica di ciascuna/o, oggi e nel medio periodo. Non vi è dubbio che la manovra approvata nei giorni scorsi, con i tagli agli enti locali, segna un pesante arretramento rispetto alle condizioni minime di conciliazione tra famiglia e lavoro che sono così importanti per le donne e per la loro possibilità di stare nel mercato del lavoro anche in presenza di responsabilità famigliari. È necessario innanzitutto ridefinire i termini del problema. Il welfare – quello fatto di servizi, ma anche di sostegno al reddito per chi è in difficoltà – non è una spesa improduttiva. È un investimento sociale, in capitale umano e in coesione sociale. Non investire in servizi per la prima infanzia, ad esempio, non significa solo rendere difficile la vita alle madri. Significa anche non investire nelle capacità delle nuove generazioni. Buoni servizi per le persone non autosufficienti sono innanzitutto uno strumento per riconoscere loro dignità e parziale autonomia dalla pur affettuosa solidarietà dei famigliari (se e quando c'è).

Affrontando la questione del welfare, il movimento delle donne non potrà esimersi dall'affrontare anche quello dell'età alla pensione per le donne nel settore privato. Perché non proporre uno scambio tra il mantenimento delle risorse per il welfare dei servizi e un anticipo dell'innalzamento graduale della pensione al 2012? La data di inizio della, lentissima, gradualità è troppo spostata in avanti, quasi di una generazione. Proponiamo invece un patto tra generazioni di donne, con le madri che accettano una graduale dilazione della propria andata in pensione in cambio di servizi per le figlie e i nipoti. Ovviamente sotto il controllo di donne presenti massicciamente in tutti i luoghi che contano. Perché, come abbiamo visto, dei patti fatti con gli uomini, specie in politica, non ci si può fidare.

di Chiara Saraceno, da Repubblica, 11 luglio 2011

venerdì 1 luglio 2011

NON CI SONO MISURE A SOSTEGNO DE

onne in Parlamento: cosa, chi/Età pensionabile donne - di Paola Avetta
Proteste per il mancato ultizzo dei fondi per le politiche di conciliazione
inserito da Redazione
Un'autentica preoccupazione serpeggia in Parlamento a proposito dell'innalzamento dell'età pensionabile delle donne. Le proteste in corso, data la mancata utilizzazione per misure a sostegno delle donne ( per l'avviamento al lavoro e la conciliazione tra lavoro e famiglia) del "tesoretto" accumulato con l'innalzamento dai 60, ai 65 anni dell'età pensionabile delle dipendenti pubbliche si accompagnano, in queste ore, all'accensione dei riflettori sul prossimo Consiglio dei Ministri convocato per Giovedì. Lì dovrebbe essere varata la manovra economica e al suo interno "si dice" anche un nuovo innalzamento dell'età pensionabile delle donne. Questa volta riguarderebbe le lavoratrice del settore privato e "si dice" il risparmio che ne deriverebbe farebbe entrare nelle casse dello Stato ben 10 miliardi di Euro: più del doppio del tanto conteso tesoretto. Le donne dell'opposizione sono già sul piede di guerra e si indignano:"Il Governo spreme le donne come limoni" dice la senatrice Vittoria Franco del PD "da una parte toglie gli anni di pensionamento anticipato rispetto agli uomini e che avevano il valore di una compensazione per il doppio lavoro svolto in precedenza , dall'altra traduce i tagli agli enti locali e alla scuola in tagli ai servizi offerti alle famiglie e infine non compensa con altre misure di sostegno alla donna lavoratrice il risparmio ottenuto con l'eliminazione del sostegno offerto dal pensionamento anticipato." Questo dimostra quanto contano le donne per Berlusconi : "nulla!" conclude la senatrice Franco.
Intanto si tenta anche di sensibilizzare le donne della maggioranza perchè si oppongano a questa nuova misura giudicata ingiusta per il genere "donna". Dal Pdl per ora non vengono segnali ma molte speranze si concentrano sulle contrarietà che la Lega oppone al varo di questa annuale manovra.

lunedì 25 aprile 2011

LE DONNE e la FESTA DELLA LIBERAZIONE



25 aprile 2011: LE DONNE e la FESTA DELLA LIBERAZIONE (non della libertà), data importante anche per le donne
Democrazia, uguaglianza e limiti. Intervista a Rosanna Oliva
Rosanna Oliva ha ottenuto il riconoscimento di Grande Ufficiale della Repubblica Italiana ed il Premio Minerva 20100 per l’uguaglianza di genere, in virtù dei suoi trascorsi in difesa dei diritti sanciti dalla Carta costituzionale ed in particolare per i diritti delle donne.
In particolare le donne hanno delle ragioni per ricordare la Liberazione?
"La data del 25 aprile ricorda la nascita della nostra democrazia repubblicana, e questo 66° anniversario della Liberazione mi sembra particolarmente significativo perché dall’anno scorso c’è stato un grande fermento nel movimento delle donne, culminato il 13 febbraio nelle manifestazioni di Se non ora quando, che hanno visto donne e uomini di tutte le età dimostrare in 230 piazze d’Italia ed anche all’estero per un cambiamento, una svolta, ritenuta necessaria per la nostra democrazia.
Quest’anno la coincidenza con le festività religiose, sia la Pasqua degli ebrei che quella cristiana, collega la festa della Liberazione e la voglia di cambiamento tanto diffusa oggi in Italia con il tema del “passaggio”, o della “rinascita”.
La coincidenza della Festa della Liberazione con la Pasquetta è invece stata utilizzata dal Governo italiano per oscurare completamente l’anniversario della Liberazione. Per fortuna ci pensa il Presidente della Repubblica, che, alla presenza dei Ministri dell'Interno e della Difesa e delle massime autorità civili e militari, deporrà una corona d'alloro al Monumento del Milite Ignoto e consegnerà la Medaglia d'Oro al Merito Civile alla memoria di Mario Pucci, un giovane di venti anni barbaramente ucciso a Firenze il 13 giugno 1938. Non meraviglia l’assenza del Presidente del Consiglio all’unica cerimonia nazionale ufficiale, né la mancanza di ogni notizia sul sito del Governo, che pubblica gli auguri inviati al Papa per la Pasqua e notizie di altre celebrazioni, ma non accenna in alcun modo alla ricorrenza del 25 aprile. E’ lo stesso governo costretto a barcamenarsi al proprio interno tra opposte fazioni, come, ad esempio, per i festeggiamenti dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Lo stesso governo che l’anno scorso, attraverso le parole del Presidente del Consiglio e del Ministro dell’Interno ha tentato di modificare il tema del 25 aprile, parlando di Festa della Libertà e non della Liberazione. L’anno scorso questo indegno tentativo mi ispirò a scrivere un post su Aspettare stanca, intitolato '25 aprile Festa della Liberazione o della Liberta?'. Quelle riflessioni sono di tremenda attualità anche oggi.
Il tentativo mal riuscito dell’anno scorso suscita ancora preoccupazioni, perché segnale di come chi oggi è al potere combatta in ogni modo la base ideologica stessa dei nostri Costituenti: la democrazia fondata sull’uguaglianza, e non sulla sola libertà individuale, principio ispiratore del liberalismo.
Uguaglianza, una parola non a caso oggi avversata, che costituisce proprio l’argine a difesa di pericolose involuzioni verso un ordinamento non democratico.
Come sostenuto da Calamandrei, “liberalismo e democrazia non sempre si possono facilmente distinguere, perché rappresentano due momenti della stessa lotta contro lo Stato assoluto. Il quale, come Stato senza limiti, offende la libertà, ma, come Stato fondato sul rango, sui privilegi di ceto, sulla distinzione dei cittadini in diversi stati con diversi diritti e doveri, offende l'eguaglianza.“
E troviamo in quanto scrive Calamandrei, la terza parola chiave, per non contrapporre uguaglianza e libertà: la parola “limiti".
Il 66° anniversario della Festa della Liberazione ci ricorda ancora una volta la nascita della nostra democrazia repubblicana, grazie alla quale noi donne italiane oggi siamo arrivate a questo “passaggio”, o “rinascita”, come volete: va comunque bene.
L’augurio per il 25 aprile 2011: trovarci unite in difesa della democrazia paritaria e consapevoli, donne e uomini, dell’importanza del momento che stiamo vivendo".
NOI DONNE

LE DONNE e la FESTA DELLA LIBERAZIONE

25 aprile 2011: LE DONNE e la FESTA DELLA LIBERAZIONE (non della libertà), data importante anche per le donne
Democrazia, uguaglianza e limiti. Intervista a Rosanna Oliva
Rosanna Oliva ha ottenuto il riconoscimento di Grande Ufficiale della Repubblica Italiana ed il Premio Minerva 20100 per l’uguaglianza di genere, in virtù dei suoi trascorsi in difesa dei diritti sanciti dalla Carta costituzionale ed in particolare per i diritti delle donne.
In particolare le donne hanno delle ragioni per ricordare la Liberazione?
"La data del 25 aprile ricorda la nascita della nostra democrazia repubblicana, e questo 66° anniversario della Liberazione mi sembra particolarmente significativo perché dall’anno scorso c’è stato un grande fermento nel movimento delle donne, culminato il 13 febbraio nelle manifestazioni di Se non ora quando, che hanno visto donne e uomini di tutte le età dimostrare in 230 piazze d’Italia ed anche all’estero per un cambiamento, una svolta, ritenuta necessaria per la nostra democrazia.
Quest’anno la coincidenza con le festività religiose, sia la Pasqua degli ebrei che quella cristiana, collega la festa della Liberazione e la voglia di cambiamento tanto diffusa oggi in Italia con il tema del “passaggio”, o della “rinascita”.
La coincidenza della Festa della Liberazione con la Pasquetta è invece stata utilizzata dal Governo italiano per oscurare completamente l’anniversario della Liberazione. Per fortuna ci pensa il Presidente della Repubblica, che, alla presenza dei Ministri dell'Interno e della Difesa e delle massime autorità civili e militari, deporrà una corona d'alloro al Monumento del Milite Ignoto e consegnerà la Medaglia d'Oro al Merito Civile alla memoria di Mario Pucci, un giovane di venti anni barbaramente ucciso a Firenze il 13 giugno 1938. Non meraviglia l’assenza del Presidente del Consiglio all’unica cerimonia nazionale ufficiale, né la mancanza di ogni notizia sul sito del Governo, che pubblica gli auguri inviati al Papa per la Pasqua e notizie di altre celebrazioni, ma non accenna in alcun modo alla ricorrenza del 25 aprile. E’ lo stesso governo costretto a barcamenarsi al proprio interno tra opposte fazioni, come, ad esempio, per i festeggiamenti dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Lo stesso governo che l’anno scorso, attraverso le parole del Presidente del Consiglio e del Ministro dell’Interno ha tentato di modificare il tema del 25 aprile, parlando di Festa della Libertà e non della Liberazione. L’anno scorso questo indegno tentativo mi ispirò a scrivere un post su Aspettare stanca, intitolato '25 aprile Festa della Liberazione o della Liberta?'. Quelle riflessioni sono di tremenda attualità anche oggi.
Il tentativo mal riuscito dell’anno scorso suscita ancora preoccupazioni, perché segnale di come chi oggi è al potere combatta in ogni modo la base ideologica stessa dei nostri Costituenti: la democrazia fondata sull’uguaglianza, e non sulla sola libertà individuale, principio ispiratore del liberalismo.
Uguaglianza, una parola non a caso oggi avversata, che costituisce proprio l’argine a difesa di pericolose involuzioni verso un ordinamento non democratico.
Come sostenuto da Calamandrei, “liberalismo e democrazia non sempre si possono facilmente distinguere, perché rappresentano due momenti della stessa lotta contro lo Stato assoluto. Il quale, come Stato senza limiti, offende la libertà, ma, come Stato fondato sul rango, sui privilegi di ceto, sulla distinzione dei cittadini in diversi stati con diversi diritti e doveri, offende l'eguaglianza.“
E troviamo in quanto scrive Calamandrei, la terza parola chiave, per non contrapporre uguaglianza e libertà: la parola “limiti".
Il 66° anniversario della Festa della Liberazione ci ricorda ancora una volta la nascita della nostra democrazia repubblicana, grazie alla quale noi donne italiane oggi siamo arrivate a questo “passaggio”, o “rinascita”, come volete: va comunque bene.
L’augurio per il 25 aprile 2011: trovarci unite in difesa della democrazia paritaria e consapevoli, donne e uomini, dell’importanza del momento che stiamo vivendo".