mercoledì 14 luglio 2010

PERCHE' GLI UOMINI UCCIDONO LE DONNE



Molti di questi definiti delitti passionali sono il sintomo del declino dell'impero patriarcale. La violenza non è solo di pazzi, mostri, malati. E poco importa il contesto sociale: non si accetta l'autonomia femminile
di MICHELA MARZANO
Si continua a chiamarli delitti passionali. Perché il movente sarebbe l'amore. Quello che non tollera incertezze e faglie. Quello che è esclusivo ed unico. Quello che spinge l'assassino ad uccidere la moglie o la compagna proprio perché la ama. Come dice Don José nell'opera di Bizet prima di uccidere l'amante: "Sono io che ho ucciso la mia amata Carmen". Ma cosa resta dell'amore quando la vittima non è altro che un oggetto di possesso e di gelosia? Che ruolo occupa la donna all'interno di una relazione malata e ossessiva che la priva di ogni autonomia e libertà?
Per secoli, il "dispotismo domestico", come lo chiamava nel XIX secolo il filosofo inglese John Stuart Mill, è stato giustificato nel nome della superiorità maschile. Dotate di una natura irrazionale, "uterina", e utili solo - o principalmente - alla procreazione e alla gestione della vita domestica, le donne dovevano accettare quello che gli uomini decidevano per loro (e per il loro bene) e sottomettersi al volere del pater familias. Sprovviste di autonomia morale, erano costrette ad incarnare tutta una serie di "virtù femminili" come l'obbedienza, il silenzio, la fedeltà. Caste e pure, dovevano preservarsi per il legittimo sposo. Fino alla rinuncia definitiva. Al disinteresse, in sostanza, per il proprio destino. A meno di non accettare la messa al bando dalla società. Essere considerate delle donne di malaffare. E, in casi estremi, subire la morte come punizione.
Le battaglie femministe del secolo scorso avrebbero dovuto far uscire le donne da questa terribile impasse e sbriciolare definitivamente la divisione tra "donne per bene" e "donne di malaffare". In nome della parità uomo/donna, le donne hanno lottato duramente per rivendicare la possibilità di essere al tempo stesso mogli, madri e amanti. Come diceva uno slogan del 1968: "Non più puttane, non più madonne, ma solo donne!". Ma i rapporti tra gli uomini e le donne sono veramente cambiati? Perché i delitti passionali continuano ad essere considerati dei "delitti a parte"? Come è possibile che le violenze contro le donne aumentino e siano ormai trasversali a tutti gli ambiti sociali?
Quanto più la donna cerca di affermarsi come uguale in dignità, valore e diritti all'uomo, tanto più l'uomo reagisce in modo violento. La paura di perdere anche solo alcune briciole di potere lo rende volgare, aggressivo, violento. Grazie ad alcune inchieste sociologiche, oggi sappiamo che la violenza contro le donne non è più solo l'unico modo in cui può esprimersi un pazzo, un mostro, un malato; un uomo che proviene necessariamente da un milieu sociale povero e incolto. L'uomo violento può essere di buona famiglia e avere un buon livello di istruzione. Poco importa il lavoro che fa o la posizione sociale che occupa. Si tratta di uomini che non accettano l'autonomia femminile e che, spesso per debolezza, vogliono controllare la donna e sottometterla al proprio volere. Talvolta sono insicuri e hanno poca fiducia in se stessi, ma, invece di cercare di capire cosa esattamente non vada bene nella propria vita, accusano le donne e le considerano responsabili dei propri fallimenti. Progressivamente, trasformano la vita della donna in un incubo. E, quando la donna cerca di rifarsi la vita con un altro, la cercano, la minacciano, la picchiano, talvolta l'uccidono.
Paradossalmente, molti di questi delitti passionali non sono altro che il sintomo del "declino dell'impero patriarcale". Come se la violenza fosse l'unico modo per sventare la minaccia della perdita. Per continuare a mantenere un controllo sulla donna. Per ridurla a mero oggetto di possesso. Ma quando la persona che si ama non è altro che un oggetto, non solo il mondo relazionale diventa un inferno, ma anche l'amore si dissolve e sparisce. Certo, quando si ama, si dipende in parte dall'altra persona. Ma la dipendenza non esclude mai l'autonomia. Al contrario, talvolta è proprio quando si è consapevoli del valore che ha per se stessi un'altra persona che si può capire meglio chi si è e ciò che si vuole. Come scrive Hannah Arendt in una lettera al marito, l'amore permette di rendersi conto che, da soli, si è profondamente incompleti e che è solo quando si è accanto ad un'altra persona che si ha la forza di esplorare zone sconosciute del proprio essere. Ma, per amare, bisogna anche essere pronti a rinunciare a qualcosa. L'altro non è a nostra completa disposizione. L'altro fa resistenza di fronte al nostro tentativo di trattarlo come una semplice "cosa". È tutto questo che dimenticano, non sanno, o non vogliono sapere gli uomini che uccidono per amore. E che pensano di salvaguardare la propria virilità negando all'altro la possibilità di esistere.

(14 luglio 2010)

martedì 13 luglio 2010

ANCORA NON BASTA...???


di Concita De Gregori
Che altro deve succedere? "Cesare" - come lo chiamavano nel loro codice Flavio Carboni, Marcello Dell'Utri e soci - sapeva tutto.
«Cesare», cioè Silvio Berlusconi, il capo del governo di questo Paese, sapeva dei ricatti, delle minacce, dei falsi dossier confezionati per screditare candidati non graditi alla Cupola. La scelta del nome il codice è il dettaglio che fa luce sulla scena: Basso impero, scrivemmo molti mesi fa. Qualcosa di peggio. L'imperatore, diceva sua moglie. Nerone, e non più nella versione grottesca di Petrolini. Una china irreversibile in cui avidità e delirio di onnipotenza trascinano il corpo lacero della democrazia. Cosa serve ancora perché sia chiaro anche a chi lo ha votato che al posto di un governo la maggioranza degli italiani ha eletto un losco, impunito, pericolosissime comitato d'affari che opera nell'illegalità assoluta - criminale, dunque - e che agisce al solo scopo di favorire la sua impunità, appunto, i suoi interessi e quelli delle lobbies di riferimento che in questo caso non sono solo petrolieri e signori delle armi ma, prima ancora e insieme, mafia, 'ndrangheta, camorra.
Cesare sta portando il paese intero ad una condizione terminale di malattia, un cancro in metastasi che non sappiamo più se sia possibile fermare tagliando, togliendo - non basterebbero le dimissioni di una o due delle persone coinvolte, e comunque neanche questo accade. Ci sarebbe piuttosto da augurarsi, come accade per gli incurabili, una fine rapida, una morte che sia di sollievo. Ma cosa succede se a morire non è una persona ma un sistema di garanzie e di regole, un paese intero, la nostra Repubblica: è ugualmente lecito augurarsi la sua fine senza temere conseguenze imprevedibili? Abbiamo gli anticorpi necessari - e gli strumenti, la forza, la capacità - per gestire all'interno del processo democratico una così drammatica e invasiva crisi di putrefazione del sistema?
Qualche settimana fa questo giornale ha dedicato la copertina a Licio Gelli, "chi si rivede" era il titolo, ed ha per l'ennesima volta raccontato come questa classe politica sia figlia di quel progetto eversivo. Berlusconi-Cesare allora era un giovane affiliato così come molti dei suoi uomini. Abbiamo raccontato a chi ha meno di trent'anni cosa sia stata e cosa sia ancora la P2 senza curarci degli occhi al cielo e dei sospiri di sufficienza di chi ogni volta commisera la nostra ostinazione: "ancora la P2, che noia". Altri si sono mostrati più interessati. El Pais ci ha chiesto un lungo articolo sul tema, diffuso in Nord e in Sud America; alcune prestigiose università americane ci hanno domandato di incontrare gli studenti e i loro docenti per raccontare questa storia. Oggi alla cricca composta da alcuni sottosegretari di governo, da uomini di Berlusconi condannati per mafia, da faccendieri già attivissimi nei giorni del crac del Banco Ambrosiano oltre che da referenti della camorra e della 'ndrangheta i giornali danno il nome di P3. E' diversa, questa P3 dalla P2: è come se ne avesse mutuato solo il codice di comportamento - la corruzione, il ricatto, l'uso dei dossier per screditare gli avversari: è una banda che fa i suoi affari, parla in codice e in dialetto, non ha neppure la grandezza criminale di un disegno eversivo. Solo soldi, benefici privati, favori. Non abbiamo più nemmeno i golpisti di una volta. Cesare ha provato a risolvere il problema come fa sempre: occultandolo. Ecco l'urgenza della legge bavaglio. Non ha fatto in tempo, e di nuovo minaccia.

domenica 11 luglio 2010

Ragazze madri e donne disagiate lasciate completamente sole dallo Stato italiano


La nostra politica non ha mai seguito il passo di altri paesi… Altrove, fuori dai nostri confini, siinveste sui bambini chiamandoli “il futuro”e i cittadini in difficoltà non vengono abbandonati, specie se ci sono in ballo dei minori. L’Italia ha un alto tasso di anziani… anni fa si parlava molto di questo problema “Ci ritroveremo un paese di vecchi” recitavano i giornali, ma la politica italiana non sembra preoccuparsene, soprattutto adesso che ci si batte per proteggere gli “utilizzatori finali”, i mafiosi, i corruttori; oggi si parla di altro, tant’è che anche i pochi giornali liberi si sono stancati di sottolineare il fatto che l’Italia sta diventando un paese di anziani.
Prendete una ragazza madre e senza famiglia, prendete una donna sola con un marito psicopatico, prendete una donna disagiata e con figli. Che aiuto da a queste donne lo Stato italiano?
L’Italia riserva un trattamento paritario alle ragazze madri,come alle madri sposate e alle donne disagiate con figli, indipendentemente dal reddito.
Sposate e non, disagiate e non, le donne italiane prendono un solo assegno di maternità di 1440 euro che bisogna richiedere al comune entro i primi 6 mesi di vita del bambino. Gli aiuti da parte del governo italiano sono quindi nulli, qualcosa è lasciato all’autonomia delle varie regioni, che in base al reddito decidono di dare alla ragazza madre somme misere che si aggirano intorno ai 100 euro solitamente, per i comuni più fortunati arriviamo ad un massimo di 300 euro. Per mantenere una donna e un figlio ci vogliono almeno 1000 euro al mese… una donna completamente sola, quindi senza il supporto di una famiglia alle spalle e con un figlio, come può andare a lavorare e pagare asilo o baby sitter e tutti i fabbisogni senza alcun aiuto?

Vediamo invece cosa succede in altri paesi:

Francia: Lo stato da alle mamme un contributo base di circa 162 euro al mese indipendentemente dal reddito. Le madri francesi in difficoltà invece prendono 700 euro al mese dallo Stato. Quando lo Stato francese ha deciso di aiutare questo genere di famiglie, l’ha dichiarato come “un investimento per il futuro e non un costo”, infatti ora è il primo paese in Europa per natalità a pari merito con l’Irlanda.

Inghilterra: indipendentemente dalla composizione della famiglia e dal reddito, la madre percepisce 95€ al mese per il primo figlio, e 13,50€ per gli altri figli. Se invece una donna è ragazza madre e lavora, in base allo stipendio annuo e alle spese annuali, viene stabilita una cifra mensile e vengono pagate anche le spese per il bambino come scuola e vestiti. Se la ragazza madre non lavora, il governo paga l’ affitto della casa, le spese come scuola, vestiti, ecc. Addirittura, in Inghilterra si sta rimettendo in discussione questa politica perché il governo si sta rendendo conto che stanno incentivando ragazze giovani ad avere figli e a farsi mantenere dallo Stato invece di studiare e lavorare.

Germania: indipendentemente dal tipo di famiglia, percepiscono 154€ al mese per il primo figlio fino alla maggiore età o fino alla fine dei suoi studi. Per i primi due anni successivi alla nascita del bambino la madre prende 300€ al mese in quanto impossibilitata dall’andare al lavoro. Per quanto riguarda le ragazze madri, se la donna vive ancora presso il domicilio dei propri genitori, si ha un ulteriore importo di 700€ al mese come mantenimento, se invece vuole andare a vivere per conto suo, può fare richiesta di un appartamento e le vengono dati dei soldi per l’arredamento essenziale. Viene dato anche un contributo di 54€ al mese a tutte le gestanti oltre la 12° settimana. Alcuni di questi contributi non provengono dallo Stato ma da agenzie apposite dove bisogna portare la domanda.

Olanda: lo Stato aiuta tutte le mamme indipendentemente se lavoratrici, sposate e non con un assegno mensile che oscilla tra gli 800 e i 1000€ al mese. Inoltre vengono pagate metà delle spese scolastiche e le spese mediche sono a carico dello Stato fino al compimento della maggiore età.

Helene Benedetti

mercoledì 7 luglio 2010

La violenza in famiglia sulle donne? Per lo Stato è un affare privato



di Annamaria Bernardi
Il punto cruciale è che c'è scarsa, scarsissima, sensibilità, da parte delle istituzioni, per tutto ciò che riguarda le vicende familiari. Lo Stato è invasivo, al limite dell'insopportabile, quando si tratta di punire una famiglia (per esempio strappando il figlio a una famiglia conflittuale o non assentendo a un'adozione); è del tutto latitante quando, invece, dovrebbe impegnarsi a prevenire quelle che poi si rivelano autentiche tragedie. Nessuno può immaginare quante denunce connesse a rapporti familiari vengano trascurate, archiviate o rimesse. Magistrati e forze dell'ordine fanno, troppo spesso, i preti che mediano inutili e ipocriti accordi pseudopacificatori: dovrebbero invece onorare il loro ruolo, anche, cercando di capire che, la maggior parte delle volte, la vittima ritira la denuncia perché è ricattata dal violento o dal persecutore.
L'ultimo pluriassassino, in ordine di tempo, aveva precedenti penali per minacce e danneggiamenti, era stato denunciato dalla vittima e da altre per una decina di volte. Chi, sapendo, ora si deve sentire corresponsabile dei suoi due sanguinari e mostruosi omicidi? Certamente, anche chi è pagato per prevenire, fermare, giudicare la violenza e non l'ha fatto. Per incuria, incapacità, cinica indifferenza.
Eppure le leggi ci sono. Ma restano inapplicate. A Milano, in verità, c'è un efficiente «pool familiare» ben coordinato tra polizia e procura: il personale è stato appositamente formato a comprendere e gestire al meglio i patologici rapporti interfamiliari. Dunque, chi ne è investito, di volta in volta sa comprendere, soprattutto in caso di stalking, se c'è il rischio della ripetizione più grave del reato e, di conseguenza, agisce con la rapidità e la concretezza indispensabili in questi casi. Quasi sempre e con un po' di stalking da parte dell'avvocato, però...
Gli strumenti giuridici ci sono e, se non sono attivati dai legali esperti, vengono suggeriti alle vittime dai poliziotti e dagli agenti scrupolosi: chi è vittima di violenza può richiedere l'ammonimento del
Questore al denunciato, ma anche misure protettive diversamente modulate, dal divieto di incontro e di contatti con luoghi e pertinenze della vittima, all'obbligo di dimora, fino agli arresti domiciliari. In via preventiva, però, senza aspettare la tragedia quasi sempre annunciata. Se la vittima è costretta a difendersi da sola, a modificare le proprie abitudini di vita, a vivere nell'ansia e nel terrore, il reato di stalking è già in atto e già provato: se chi deve agire non lo fa, è colpevole lui stesso; se non di stalking, quantomeno di omissione di atti d'ufficio. Intanto.
Siamo circondati dalla violenza, soprattutto all'interno delle mura domestiche: molestie, maltrattamenti, crudeltà mentale, aggressioni morali, fisiche e specificamente sessuali, minacce, terrorismo psicologico, sadismo comportamentale. La vittima spesso non la riconosce, poi se ne vergogna, nel frattempo ne diventa dipendente o ha paura del persecutore. Si fa presto ad arrivare al crimine, quando «l'amore» è malinteso, delirante, ossessivo e non accetta la frustrazione del rifiuto e della fuga.
Tanto per cominciare, smettiamola di giustificare gli assassini dicendo «a suo modo l'amava».

L’amore per il prossimo, non la retorica dell'amore





Crimini nascosti, distorsione della sessualità, abusi, negazione dei diritti e della giurisdizione civile: gli scandali del potere
Stefania Friggeri
Un malevolo “chiacchiericcio”, attacco paragonabile agli “aspetti più vergognosi dell’antisemitismo”, e così via fino al “complotto” anticattolico, linea di difesa tipica del mondo berlusconiano. No, non è così che la gerarchia cattolica può superare lo scandalo pedofilia, ma facendo chiarezza, aprendo archivi e rispondendo al bisogno di trasparenza e democrazia delle società moderne. A una Chiesa ingessata e calcificata nella tradizione, gli scandali offrono l’opportunità di interrogarsi sulle distorsioni istituzionali, riaprendo innanzitutto il capitolo sessualità perché ogni abuso sessuale è in primo luogo abuso di potere.
Nelle prime comunità cristiane il prete non aveva prerogative che lo rendessero appartenente a una casta, non esistevano luoghi appartati vietati alle donne in cui formare gli aspiranti al ministero, eletti dalla comunità. Solo successivamente si è organizzata una struttura separata e gerarchica mutuata dall’impero romano dove il religioso, munito di “sacra potestas”, gode di investitura divina che ne fa una figura diversa dagli altri mortali, membro di una mistica corporazione. La Chiesa, in quanto “societas perfecta”, è sottoposta solo alla legge di Dio, cioè di chi ne fa le veci sulla terra brandendo il diritto canonico: in caso di contenzioso, prevale sul diritto civile.
Come si evince dalla lettera inviata nel 2001 da papa Wojtyla al vescovo P.Pican, lodato per “non aver denunciato un prete all’amministrazione civile” e “aver preferito la prigione piuttosto che denunciare il suo figlio-prete”, accusato di pedofilia. E nel rapporto Murphy: “La sola preoccupazione dell’arcidiocesi di Dublino era quella di mantenere la segretezza, evitare lo scandalo, proteggere la reputazione della Chiesa e i suoi beni. Tutto il resto, incluso il benessere dei bambini e la giustizia per le vittime, era subordinato a queste priorità”.
Nelle nebbie del “troncare, sopire, tacere” ha però rischiato Ratzinger poiché contro di lui (allora Prefetto per la Dottrina della Fede, ex Sant’Uffizio) nel febbraio 2005 spiccò un ordine di comparizione la Corte texana di Harris accusandolo di “ostruzione alla giustizia” (ma, eletto papa nell’aprile, come capo di Stato ottenne l’immunità diplomatica). L’ordine di comparizione era motivato dall’Epistola “De delictis gravioribus” (lettera sui delitti più gravi), inviata da Ratzinger agli episcopati di tutto il mondo nel pieno della tempesta preti-pedofili: “le cause di questo genere sono soggette al segreto pontificio”, ovvero al più rigido dei segreti previsti dal diritto canonico dopo il sigillo della confessione; il segreto è imposto non solo per il tempo necessario a esaurire il processo (forma estrema di garantismo) ma deve essere “perpetuo”. Inoltre la Lettera si richiama al “Crimen sollicitationis” (1962), che ordina ai rettori delle diocesi di istruire i processi, a carico dei preti accusati di abusi, nel massimo della segretezza, pena la scomunica. Viene cioè prevista una pena più grave per la vittima, se parla (la scomunica) che per il reo se tace (riduzione allo stato laicale). Il pedofilo è al massimo un peccatore, un problema interno alla Chiesa, non l’autore di un crimine da denunciare all’autorità giudiziaria. E non solo perché la giurisdizione canonica è considerata superiore a quella civile, ma anche perché la retorica dell’amore per il prossimo si infrange contro la mancanza del rispetto dei diritti umani: come prova anche il rifiuto del Vaticano di firmare le varie Dichiarazioni, la Convenzione internazionale sulla parità uomo-donna, ecc. Come se la dignità della persona potesse essere assicurata senza concrete garanzie politico-giuridiche. Ma se la pedofilia è sempre esistita perché oggi indigna tanto? Perché oggi il minore è soggetto di diritti, o meglio: lo è dove la cultura, evolvendosi, si è umanizzata e la pedofilia si è rivelata per quello che è: un abuso ingiustificabile. Rovinoso per le vittime.
Ma in verità da sempre la Chiesa ha dovuto affrontare il tema degli abusi sessuali che, negli anni in cui si poteva comprare l’assoluzione, venivano così puniti da Leone X: “Se l’ecclesiastico, oltre al peccato di fornicazione, chiedesse d’essere assolto dal peccato contro natura o di bestialità, dovrà pagare 219 libbre, 15 soldi. Ma se avesse commesso peccato contro natura con bambini o bestie e non con donna, pagherà solamente 131 libbre, 15 soldi” (Taxa Camerae, 1517). E l’uso adescatorio del confessionale era così noto che nelle “Istruzioni per fabbricare le suppellettili ecclesiastiche” il card. Borromeo ordina che i confessionali abbiano “la parte frontale completamente aperta” e un divisorio a impedire il contatto fisico.
Oggi come principale responsabile viene additato il celibato. Ma la pedofilia non si spiega solo col celibato, anche se il tema va affrontato: non tanto perché rinunciarvi aiuterebbe a risolvere la crisi delle vocazioni, ma soprattutto perché la Chiesa potrebbe avviarsi a superare la separatezza che nutre la casta, imbevuta di un concetto sacro e idolatrico dell’autorità.
Per sradicare la pedofilia riconosca la Chiesa la connessione fra sesso (maschile) e potere, cerchi di sradicare la sete di alterità, di superiorità e dominio dalla sfera del sacro. Se la Chiesa accettasse la sessualità come attitudine naturale, non inclinazione peccaminosa da superare in chiave ascetico-sacrificale, se rinunciasse a proporsi come casta libera dalle impurità del corpo, separata ed elitaria, se rompesse il nesso sesso-potere, forse gli abusi sessuali sarebbero ridimensionati

Calcio in copertina


Il corpo delle donne come specchietto per le allodole.
Appena arrivi in edicola sei bersagliato da immagini che usano il corpo delle donne come specchietto per le allodole. Quasi sempre a sproposito. Anche i campionati mondiali di calcio non sono sfuggiti a questa regola. Ad esempio, sulla copertina del settimanale Panorama, che ricorre ad immagini femminili “porno soft” come costante scelta editoriale, svetta l’attrice Maria Grazia Cucinotta, che indossa la maglia azzurra della squadra italiana. Solo quella. Il titolo: “Mondiali messi a nudo”. Come se il compratore di un settimanale di “attualità, politica, economia, cultura e società con news ed approfondimenti”, come dichiara di essere Panorama, fosse solo maschio e anzi un maschio che desidera in cuor suo comprare Playboy. Accanto, anche il settimanale americano d’attualità Time dedica al calcio la sua cover con un disegno forte, graficamente bruttino ma che richiama inequivocabilmente un calciatore, che ci è più facile immaginare mentre corre sul campo di calcio della signora Cucinotta. Due le domande che sorgono spontanee. I direttori e le redazioni dei magazine italiani che fanno queste scelte sono veramente convinti che gli acquirenti siano tutti maschi bavosi? E non pensano che ci sono anche molte donne interessate a temi di “attualità, politica, economia, cultura e società con news ed approfondimenti”,compresi i campionati di calcio, donne che possono infastidirsi da pezzi di corpo femminile buttati lì strumentalmente? E forse imbarazzate ad aggirarsi con un giornale sotto braccio con queste immagini in copertina? Non per falso senso del pudore o timidezza. Solo perché non si riconoscono in questi messaggi, e non vogliono

domenica 4 luglio 2010

La maternità è un lusso?



La genitorialità come libera scelta che coinvolge la collettività e basata sulla condivisione delle responsabilità
Serena Sorrentino
La maternità per il Governo attuale è un dovere sociale. Per molti è invece una scelta che deve essere compiuta liberamente e che va resa compatibile con la salvaguardia delle proprie esigenze di vita attraverso l’intervento pubblico in termini di servizi ed assistenza volti alla conciliazione. Per noi oltre che libera scelta è anche un diritto che va tutelato in ogni suo aspetto: concepimento/adozione/affido, tutela della salute, accompagnamento sociale, servizi all’infanzia, percorsi di reinserimento lavorativo e modulazione degli orari che rendano la maternità compatibile con il lavoro, senza rinunciare alla professione ed all’impiego né tanto meno alla scelta di accompagnare la crescita e l’educazione i propri figli. Si dirà che la legislazione vigente già interviene in materia in modo organico, il punto in questione diventa però l’esigibilità di tali diritti. Eppure oggi i congedi parentali sono un tema “sensibile” non solo “gender sensitive”. Non solo i dati indicano che le donne dopo la maternità sempre più spesso non rientrano al lavoro, ma ci indicano anche che la scelta dipende da fattori tra loro concomitanti: servizi pubblici scarsi e servizi privati onerosi per cui tra costi dei servizi e reddito quasi conviene rinunciare al lavoro che spesso non solo è precario ma produce anche scarso reddito; la scarsa propensione delle aziende a concedere una flessibilità reversibile e funzionale che consenta maggiore integrazione tra esigenze di vita, cura, lavoro. Tali tendenze accentuano ancor di più le disuguaglianze sia territoriali che sociali. Indubbiamente chi ha mezzi economici propri riesce a risolvere il problema della conciliazione anche laddove non esistano reti parentali (nonne e nonni) che suppliscano alla carenza di servizi pubblici, chi non li ha e non riesce a trovare spazio nelle graduatorie pubbliche davanti a sé non ha grandi opportunità. Dal punto di vista territoriale la maggioranza delle istanze presentate all’Inps di accesso al congedo parentale si concentrano nel centro nord (1 su 4 nel settore privato è in Lombardia) dimostrando la scarsa presenza delle donne nel mercato del lavoro meridionale. Comincia ad aumentare anche la quota di accesso degli uomini al congedo (oggi sono il 7,5% del totale) ma non tra coloro che hanno contratti a tempo determinato e che chiaramente sono spaventati dalla possibilità di perdere il posto di lavoro e pochi anche i casi tra i part-time, che rimane appannaggio delle donne lavoratrici. Eppure la discussione sul tema in un continente, l’Europa, preoccupato dalla scarsa natalità e dall’invecchiamento della popolazione è quanto mai attuale tant’è che la Commissione Europea sta discutendo il riordino in materia introducendo norme estensive per una genitorialità basata sulla condivisione delle responsabilità, come il prolungamento dei periodi di copertura fino a 24 mesi, misure di sostegno al reddito e di revisione dei tetti di indennità di maternità/paternità, divieto di licenziamento, norme prescrittive sulla tutela della salute delle donne, solo per citare alcuni titoli. Ovviamente nel nostro Paese siamo in controtendenza. L’Europa pone tra gli obiettivi di servizio quali per l’infanzia per colmare il differenziale territoriale ed aumentare l’offerta e da noi vi è incertezza sul Piano Nidi, si tagliano risorse agli Enti Locali, seguendo la filosofia del Libro Bianco sul welfare in cui anche la “cura” dei figli è prima di tutto una responsabilità individuale e pertanto un fatto privato. Lo stesso accordo sul modello contrattuale e il ddl 1167 vanno nella direzione contraria a quella di migliorare le condizioni di lavoro tale che sia possibile per le madri ed i padri. Limitare gli spazi di contrattazione decentrata, cancellare il potere delle rappresentanze sindacali dei posti di lavoro, impedisce di fatto quella contrattazione su orari, organizzazione del lavoro, sulla gestione delle attività che può rappresentare un utile strumento di prossimità in cui le esigenze di lavoratrice/ore ed azienda possono essere meglio interpretate fermo restando le tutele normative esistenti sul fronte assistenza, copertura economica, salute e su quelle lavoristiche. Il ddl 1167 prevedendo tra l’altro che all’atto dell’assunzione venga imposta la scelta rispetto alla possibilità, in caso di contenzioso, di rivolgersi all’arbitro o al giudice del lavoro, quando cioè lavoratrici e lavoratori sono più deboli, influirà non poco. Infine il Governo si è affrettato da subito a cancellare la legge 188 fortemente sostenuta dalle donne e dalla Cgil contro le dimissioni in bianco che tutelavano prioritariamente lavoratrici allorquando subentrava la maternità dal rischio del licenziamento. Anche la maternità in definitiva rientra tra quei temi che non possono essere affrontati “burocraticamente” ma va contestualizzata sia rispetto alla riconquista di forme di lavoro strutturato, di flessibilità positive (cioè determinate da una scelta consapevole e reversibile) di contrasto alle forme di precarietà del lavoro e di consolidamento dei sistemi di welfare territoriale, in cui la comunità si renda partecipe dei processi di conciliazione adeguando attraverso la pianificazione e programmazione degli orari, dei tempi, di servizi e attività l’integrazione tra genitorialità e attività lavorativa. Come Cgil non solo ciò fa parte della riflessione che affrontiamo nella proposta politica che presentiamo al XVI Congresso (5/8 maggio 2010, ndr), ma è oggetto della nostra attività di lavoro quotidiano. A tal fine infatti grazie anche alla strutturazione dell’osservatorio sulla contrattazione sociale e all’attività di interrelazione dei settori del welfare, delle pari opportunità, delle categorie, dei territori e del rapporto con gli Enti Locali e le aziende, abbiamo costruito la nostra piattaforma sul benessere che mette al centro le politiche di sostegno all’infanzia, alla genitorialità, assumendo la centralità del lavoro come valore sociale. Molte ragazze e ragazzi scelgono di ritardare l’esperienza della genitorialità perchè l’insicurezza sociale spaventa e diminuisce le aspettative sul futuro e quando vi arrivano vanno incontro a rischi diversi che riguardano non solo la salute. Combattere le disuguaglianze, immaginare un futuro in cui non ci si rassegni ad un destino fatto di precarietà per le nuove generazioni, in cui a prescindere dalla nazionalità donne e uomini possano esercitare nelle varie forme la genitorialità come scelta libera, che accresce la comunità e di cui essa si fa carico non può essere un fatto che riguarda i singoli bensì la collettività. E’ una battaglia culturale, di civiltà che combatte visioni etiche, familiste, xenofobe e discriminatorie.

venerdì 2 luglio 2010

“Lasciare” il lavoro… dietro le quinte della libertà?



Le nuove generazioni, che ne siano consapevoli o no, sono a rischio. E sono molto più sole di quanto non credano
Giancarla Codrignani
Trovo su una rivista di nicchia, edita da un Società cooperativa di Forlì e nota a certa intellighenzia italiana - si chiama Una città - un'intervista a Marina Piazza a proposito di "un'indagine sul perché tante donne decidono di lasciare il lavoro entro il primo anno di vita del bambino". Forse è un segnale che ci può sfuggire, anche se appare rilevante.
Il servizio parte dal caso di una dirigente dell'impresa Red Bull, invitata a lasciare l'azienda dopo la maternità. Piazza spiega ri-raccontando il pregiudizio sulla lavoratrice che, quando diventa madre, "non rende più come prima". La responsabilità non è necessariamente delle ottime condizioni di trattamento della maternità ottenute dalle donne con le loro lotte; ma resta vero che, siccome nel primo anno di vita del bimbo viene mantenuta la copertura salariale per sei mesi, l'ultima statistica Istat rivela che il 13% delle neomamme si dimette spontaneamente.
Tuttavia "la scorciatoia non paga", perché "dopo" viene la dura esperienza della difficoltà di tornare sul mercato del lavoro, che ha due esiti: chi ci torna rischia il "mobbing strategico", chi resta fuori rischia la depressione. Anche perché la mamma "desidera senz'altro stare con il proprio bambino, ma non tutti i giorni 24 ore su 24". Qui si innesta una prima questione: le ragazze stesse forse non se ne accorgono, ma perfino quelle che ci dicono che è meglio trovare un marito ricco e fare la casalinga non pensano assolutamente di diventare come le loro madri. L'indipendenza contemporanea non passa solo, come un tempo, attraverso l'affermazione di sé nel lavoro retribuito, ma sta ormai nella testa: le abitudini sociali delle giovani e giovanissime sono quelle di conoscere un sacco di gente, di non rendere mai conto di dove si va, di stare con gli amici in mezzo alla movida... La casa, pur amata, non basta più alla generalità - non tutte, per carità - delle giovani: starci dentro senza entrarci e uscirne liberamente (come poi diventa praticamente necessario), è una frustrazione che può comportare addirittura la crisi degli equilibri familiari e di coppia. Infatti, dice Piazza, "nessuna di queste donne aveva pensato alla maternità come alternativa al lavoro". Tutte, probabilmente, credevano che, quando il governo giura di mettere al primo posto gli interessi delle famiglie e il ministero del Lavoro con quello delle Pari Opportunità scrive un documento (Italia 2030) per sostenere che ci vogliono più donne al lavoro, parlassero sul serio. Tutte, infatti, "vogliono lavorare bene ed essere delle buone madri". Sarebbe ora di applicare con maggior attenzione forme alternative o complementari: il job sharing, il part time, altre esperienze di flessibilità, anche scandite sull'arco della vita lavorativa. Anche perché non c'è più il modello fordista che, pare impossibile, domina ancora quasi solo da noi... Anche il sindacato non ne esce: "sulla legge 53 non ha mai proposto qualcosa di nuovo" perché non riesce a guardare il mercato - e tanto meno il welfare - "con gli occhi delle donne". È vero che lo stesso mondo femminile per anni ha ritenuto il part time un lavoro dequalificato, non totalmente dignitoso; ma oggi le donne hanno motivato le ragioni di un'opzione che può essere vantaggiosa per entrambi i generi in situazioni date. Invece negli ultimi cinque anni "il 91% di tutto l'aumento di occupazione femminile è dato dal part-time, ma non volontario, bensì imposto dalle aziende". Il welfare appare così ancora "tutto costruito su base lavoristica e il concetto della cura, che è un pilastro della società, non ha alcuna cittadinanza".
Personalmente sono convinta che non sarebbe difficile capire che le donne hanno un'esperienza tale della "flessibilità", se è vero che riescono a tenere insieme tutti i pezzi di vita, che dovrebbe renderle specialiste ricercate, da consultare per uscire dalle rigidità di processi ormai definitivamente compromessi. Invece, evidentemente, per il pensiero unico deve essere difficilissimo anche capire che cosa proponiamo. Intanto cresce la preoccupazione sul grado di tenuta delle donne, soprattutto giovani, che, in quanto donne e in quanto lavoratrici, si ritrovano sole, anche se molte non se ne accorgono neppure. "Parliamo di giovani donne che hanno studiato, che sono brave nel loro lavoro, che quando restano incinte non pensano affatto di lasciare il loro posto. In un certo senso è come se questa nuova generazione proponesse un altro modello, quello di sanare la cesura tra la responsabilità e il desiderio di esserci e trasformare il mondo, e la voglia e la responsabilità di prendersene cura".
Se fosse vero, bisognerebbe cercare di snidare le precarie, le "partite iva" e tutte le marginali. Nella solitudine (che non percepiscono), sono loro, forse, quelle che possono farci (e farsi) venire idee su come sarà, sperando che ci sia, il futuro. Ma intanto loro, che se ne accorgano o no, sono a rischio.