Non è un paese per donne "Il nostro paese sottolinea a parole il valore della famiglia, ma non fa granchè per sostenerlo effettivamente..."
sabato 28 agosto 2010
Pubblica e privata, non è la stessa scuola
Pubblica e privata, non è la stessa scuola
Una certa destra attacca il Risorgimento. È coerente con un disegno reazionario che riguarda anche la scuola
Stefania Friggeri
Rileggere la “Storia dell’educazione popolare in Italia” di D. Bertoni Jovine, un classico della storiografia pedagogica, sarebbe molto istruttivo in questi tempi in cui si rischia di tracciare nuove vie verso il futuro senza aver riflettuto in modo approfondito sull’eredità del nostro passato, come dimostra il chiacchiericcio mediatico nei salotti tv sul Risorgimento (l’anno prossimo cadono i 150 anni dalla proclamazione dell’Unità d’Italia). Leggiamo: raggiungere l’obiettivo di scolarizzare le bambine rimaneva molto difficile sia prima che dopo l’Unità perché “C’era di mezzo un pregiudizio secolare che la Chiesa e i governi avevano perpetuato e che aveva portato all’analfabetismo integrale del sesso femminile delle classi povere, appena temperato nelle classi agiate”. Per le bambine dunque solo cucito e catechismo perché il sapere, inutile alle madri, avrebbe potuto allontanarle dalla modestia, ovvero dalla virtù che, insieme alla sottomissione, dava valore alla donna. E se la maestra voleva insegnare a leggere, scrivere e far di conto? Nello Stato della Chiesa avrebbe dovuto presentare la domanda e aspettare speranzosa la risposta. Nelle scuole parrocchiali dello Stato della Chiesa inoltre le materie scientifiche non erano insegnate perché “i lumi sono sempre volterriani, sono il mito della ragione contro la fede” (ivi), ovvero: “tutte le scienze che inducono il fanciullo all’osservazione spregiudicata dei fatti storici e naturali sono scienze diseducative, se per educative si intendono soltanto le suggestioni che rafforzano la fede” (ivi).
Ma sono gli anni in cui si avvia anche in Italia la rivoluzione industriale e la borghesia emergente, che ha investito capitali ed energie, chiede allo stato una scuola pubblica che, eliminato l’anacronismo di tenere il mondo del sapere lontano dal mondo del lavoro, risponda al bisogno di una manodopera qualificata. Il clero, che da sempre detiene il monopolio sull’istruzione, consapevole anche del fatto che possedere la direzione della cultura popolare equivale a possedere un mezzo di dominio, attiva una resistenza, tenace ma infruttuosa: nel clima agitato dai rivolgimenti che attraversano l’Europa, i tempi si sono fatti maturi per le riforme e il Parlamento subalpino vota la legge Casati (1859): nella scuola viene stabilita l’uguaglianza per i due sessi, è previsto un corso superiore (facoltativo) vicino a quello elementare (obbligatorio), viene iniziato un percorso verso la laicità, che sbocca nel 1877 nella legge Coppino. Con la quale, abolita la figura del direttore spirituale nel corso superiore, si dispone genericamente che la scuola provveda ad insegnare i “doveri dell’uomo e del cittadino”.
La Chiesa sembra sconfitta ma in verità le riforme e l’impegno per l’unificazione nazionale nascono dai “cattolici adulti” di quel tempo, i quali vedevano la fine del potere temporale come un’opportunità per il risorgimento della Chiesa stessa. Così infatti si esprimeva Cavour dopo la promulgazione delle leggi Siccardi: “Ora che la società posa sul principio dell’eguaglianza, sul principio del diritto comune, credo che il clero cattolico saprà molto bene adattarvisi, saprà farli suoi e con questo vedrà crescere la sua influenza, la sua autorità.”
Ma la Chiesa rifiuta i rapporti con lo Stato secondo l’impronta liberale e si arrocca in una visione conservatrice condannando col Sillabo il liberalismo, la democrazia, le libertà individuali e il socialismo. Saranno poi i socialisti, col loro municipalismo riformista, a caricarsi del compito storico di colmare le carenze dello stato liberale in materia di educazione popolare e di promozione del lavoro femminile, mettendo in primo piano la lotta all’analfabetismo. Un percorso interrotto dal fascismo che fa della scuola il cemento di una società di classe: selezione, licei come luogo esclusivo di formazione della classe dirigente, rinuncia dello Stato a una propria scuola dell’infanzia a favore di un quasi completo monopolio parrocchiale.
Non a caso figlia di quello che è stato giustamente definito “secondo Risorgimento”, sarà la Costituzione repubblicana a dettare un alto profilo di politica egualitaria nel campo dell’educazione e della condizione femminile. E verranno così, grazie soprattutto ai movimenti di massa, con l’UDI in primo piano, le leggi di tutela della maternità, l’istituzione della scuola media unica, la scuola materna statale (quasi la violazione di un tabù), la legge sui nidi. La storia tuttavia non è un processo lineare e sono possibili drammatici salti all’indietro, come quello che sta tramando il duo Tremonti-Gelmini: in nome della famiglia e della libertà d’insegnamento (quando servono i valori liberali vanno recuperati) la scuola pubblica viene mortificata a vantaggio di quella privata (leggi cattolica). Come non vedere allora che l’aggressione di certa destra contro il Risorgimento si spiega anche all’interno di un disegno reazionario che tende ad allargare oltre la Lombardia il modello di scuola Formigoni-CL.?
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