martedì 17 giugno 2014

L'Agorà delle donne: “Yara e le altre vittime” I sopravvissuti non perd...

L'Agorà delle donne: “Yara e le altre vittime” I sopravvissuti non perd...: Il presunto assassino di Yara, incastrato dal Dna, scopre di non essere figlio di suo padre, ma di un uomo defunto di cui porta il secondo n...

“Yara e le altre vittime” I sopravvissuti non perdano mai la fiducia. Gli angeli spuntano dove meno te lo aspetti.

Il presunto assassino di Yara, incastrato dal Dna, scopre di non essere figlio di suo padre, ma di un uomo defunto di cui porta il secondo nome. Un padre scopre che suo figlio è accusato di omicidio e che non è suo figlio. Una sorella scopre che suo fratello gemello è accusato di omicidio e che neppure lei è figlia di suo padre. Un fratello scopre che i suoi fratelli gemelli sono fratellastri e che uno di loro potrebbe essere un assassino. Una moglie scopre che suo marito è accusato di omicidio, che suo suocero non è il padre di suo marito né il nonno dei suoi figli e che la storia di Yara che per anni ha visto alla TV le è appena entrata in casa seminando distruzione. Una mamma aveva scoperto da tempo che suo figlio era ricercato come presunto assassino, ma era rimasta in silenzio per non scoprirlo e non farsi scoprire: quel figlio lo aveva avuto da un uomo che non era suo marito. Una vedova scopre che suo marito aveva avuto un figlio illegittimo, ora accusato di assassinio. Non si tratta di uno scioglilingua e neppure di una fiction uscita dalla fantasia di uno sceneggiatore particolarmente lesso, ma della realtà di una tranquilla e rispettabile famiglia della provincia di Bergamo. Spostandoci di qualche decina di chilometri in direzione di Milano ne troviamo un’altra. Sabato sera, una moglie e due bambini sono stati uccisi in modo barbaro dal tranquillo e rispettabile maschio di casa. Ancora non si conosce il movente del presunto omicida di Yara, benché non occorrano troppi sforzi di immaginazione. Ma la carneficina del Milanese sembra scaturire da una psicologia persino più tortuosa. L’assassino corteggia una collega di lavoro, ne viene respinto e si convince che la ragione del rifiuto sia la sua condizione di uomo impegnato, con moglie e figli a carico. Potrebbe divorziare o anche solo fermarsi un attimo. Ma la vita gli sembra una prigione e le responsabilità le sbarre di una gabbia. Il divorzio costa troppo, in termini economici e sociali. Così mette a letto i bambini, fa l’amore con la moglie, per sfogarsi o per calmarsi, ma non si sfoga e non si calma. Si alza, invece, e va in cucina a prendere un coltello. I bimbi cadono nel sonno, sacrificati come agnellini, La moglie muore da sveglia e fa ancora in tempo a chiedergli «perché». Bella domanda. Ma lui non risponde. Si lava le mani e va al bar a vedere la partita. L’avvertenza è d’obbligo: non è che tutte le famiglie siano come quelle che la cronaca nera spinge in avanti come sentinelle del nostro smarrimento. Non siamo diventati all’improvviso un popolo di assassini di ragazzine e sgozzatori di parenti prossimi. Chi varca i confini del delitto è sempre un estremista, però si muove in un contesto sociale che non ci è estraneo. La famiglia: luogo di convivenza forzata, culla e tomba di passioni, ma anche fabbrica di interessi e produttrice inesausta di misteri. Come autore di un romanzo a sfondo familiare mi è capitato di ritrovarmi depositario delle confidenze intime di lettrici e lettori che mi hanno fornito un catalogo impressionante di tutte le meraviglie e gli orrori che la cellula della società umana riesce a produrre: complessi, rancori, scoperte tardive, agnizioni, invidie, gelosie e bugie, tantissime bugie. A fin di bene, a fin di male, a fin di niente. Si vive dentro una bolla di non detti, si accumulano tensioni e illusioni e poi si esplode, per fortuna non sempre con gesti da codice penale, ma in modi comunque feroci che fanno vacillare le certezze. Ad esempio che ci si possa fidare almeno delle persone con cui si condividono le mura di casa. Lascio volentieri a sociologi e psicologi il compito di scandagliare gli abissi della comunità e della psiche umana. Il mio pensiero adesso va solo ai bambini: a quelli uccisi dal padre impazzito e ai figli del presunto assassino di Yara, segnati a vita da qualcosa di troppo grande e orribile per loro. Che i sopravvissuti non perdano mai la fiducia nel prossimo, perché gli angeli spuntano dove meno te lo aspetti e una vita passata a guardarsi le spalle è una condanna immeritata per chiunque, figuriamoci per degli innocenti. di MASSIMO GRAMELLINI da “La Stampa” di oggi. 17/06/2014

lunedì 16 giugno 2014

Non definitelo bestiale, solo gli uomini sanno compiere atrocità tali, in nome della conquista della propria libertà

Padre, marito e assassino, così un uomo si trasforma in un mostro disgustoso e spaventevole
Difficile da digerire, impossibile accettarlo; l’unica sensazione che si prova è disgusto e paura. Sabato sera una donna di 38 anni e i suoi due figlioletti di cinque anni e di venti mesi sono stati barbaramente trucidati. La donna è stata colpita ripetutamente con un coltello e lasciata morire per dissanguamento, i piccoli sono stati presi per il collo e accoltellati, forse essendo così piccoli sono morti velocemente (speriamo). Il delitto è avvenuto poco prima della mezzanotte, quando sarebbe scesa in campo l’Italia per la prima partita dei mondiali contro l’Inghilterra; l’assassino, ora lo sappiamo, dopo aver compiuto il massacro si è lavato, ha allestito una scena che rendesse credibile la rapina mettendo a soqquadro la casa e aprendo la cassaforte per far sparire i pochi contati che vi erano conservati. Quindi si è chiuso la porta alle spalle ed è andato a guardare la partita con gli amici. Già, perché l’assassino, il mostro di questa storia, colui del quale si era detto in un primo momento che si fosse salvato dalla mattanza grazie a quella provvidenziale partita che lo aveva portato fuori casa, ha un nome un cognome e soprattutto una parentela con le vittime, si chiama Carlo Lissi, non scordatevi questo nome, egli è il padre e marito delle vittime. Carlo Lissi non è solo un assassino, è un idiota, un criminale con l’aggravante della stupidità acuta, non riesce neppure ad avere la “grandezza” della malvagità, il suo segno negativo non è un numero di grandezza esponenziale parametrato sull’orrore del delitto, ma è prossimo allo 0 inteso come niente. Ha confessato Carlo Lissi, ha detto che considerava la famiglia un ostacolo. Ha raccontato che si era innamorato, non corrisposto, di un’altra donna che lo aveva rifiutato. Chissà magari verrà fuori che questo idiota, cui la sorte troppo benigna (è proprio vero che la fortuna è cieca e beneficia chi non lo merita), aveva regalato una famiglia perfetta: una brava moglie, e due figli sani, belli, sereni, e nessun problema economico in tempi in cui la disperazione falcia la serenità di tante famiglie, verrà fuori che la moglie più grande di lui di 8 anni gli provocava uno stato di disagio come quello della sudditanza psicologica da un genitore. Lui non era soddisfatto, voleva forse “nuovi stimoli”, di solito gli uomini stupidi non sanno apprezzare quel che hanno, cercano altro, soprattutto non vogliono responsabilità, vogliono sentirsi liberi e leggeri, non pianificano il futuro, distruggono il presente per insofferenza momentanea che essi definiscono definitiva e irrevocabile come accade a chiunque teorizzi il vivere alla giornata (da non confondere con l’oraziano Carpe diem che significa vivi intensamente in momento senza farti distogliere dal pensiero del futuro) per sottrarsi ai doveri del domani. Quell’uomo aveva corteggiato una collega (a quanto riferiscono) e ne era stato respinto. Chissà, magari la donna per non umiliarlo gli aveva detto quello che in questi casi si dice «Tu sei sposato, hai una famiglia, dei figli, no, guarda non è proprio il caso». O forse se lo è figurato lui che il rifiuto fosse dovuto al suo status di marito e padre, non lo sappiamo e non lo sapremo mai perché dal momento della confessione (alla fine della quale pare che abbia invocato per sé il massimo della pena!) entrano in campo gli avvocati che, a meno di colpi di scena, cercheranno di invocare per il loro cliente l’infermità mentale, magari temporanea. Avranno ragione a farlo perché senza dubbio l’idiozia e la stupidità sono stati alterati della mente, chiunque compia una stupidaggine, piccola o grande che sia, dimostra un malfunzionamento temporaneo dell’intelligenza (intesa in senso etimologico di intelligere, capire quel che si fa e quel che non si può fare). Se passiamo con il semaforo rosso, se mettiamo il sale a posto dello zucchero nel caffè o ci laviamo i denti con la schiuma da barba al posto del dentifricio che è giusto lì vicino, siamo anche noi vittime di un momentaneo mancamento di attenzione e dunque di “intelligenza” che comunemente chiamiamo “distrazione”, e se lo facciamo consapevolmente, il fatto stesso di compiere un atto proibito o stupido è ugualmente indice di malfunzionamento dell’intelligenza stessa. Non per questo possiamo essere definiti irresponsabili, ovvero non imputabili della mancanza e dunque tali da non doverne subire le conseguenze. Giustamente si potrebbe obbiettare che la temporanea infermità mentale non significa essere assolti, ma semmai una riduzione della pena e una terapia adeguata. Bene per la terapia, ma non per la riduzione della pena perchè essa dovrebbe valere per chiunque si macchi di qualunque crimine che come tale compiuto per consapevolezza criminale o per leggerezza denuncia un black out intellettivo. A questo punto vedo già gli psicologi e gli addetti ai lavori della psiche sbottare inorriditi che queste sono semplificazioni inaccettabili. Può darsi, ma quel che dovrebbero chiedersi è come possa invece essere accettabile che un uomo di 31 anni massacri la famiglia e vada a godersi la partita con gli amici dopo aver simulato una rapina. Ovviamente non è accettabile. Fin qui il disgusto di cui parlavo all’inizio. Veniamo alla paura. La mattanza compiuta da un uomo normale, e sottolineo il “normale” fa più paura di un atto criminale compiuto a scopo di rapina, o commesso da un serial killer patologico, da una persona malvagia, o disperata. di Simonetta Bartolini

sabato 14 giugno 2014

L’Italia senza più mamme

E pensare che eravamo il paese delle mamme, con l’immaginario collettivo che prendeva anche un po’ in giro quella nostra vocazione alla maternità che cominciava con il pancione e non finiva più, nemmeno quando i figli erano adulti. Ora, invece, la fotografia che l’ Istat ci sviluppa del nostro paese è quella di un’Italia dove non si sono fanno più figli, e dunque non ci sono più le mamme. Siamo a 1,29 figli a testa, partoriti in media all’età di 31 anni. Dopo il 1995, quando si era registrato un record negativo, ci eravamo illusi, leggendo che la crescita dell’occupazione femminile cresceva di pari passo alla natalità, che la vita di una donna che lavora e che diventa madre fosse compatibile. Oggi il calo delle nascite ci costringe a ragionare e a concludere che non è (più) così. Come se fossimo tornati indietro. I numeri, naturalmente, vanno interpretati, e la statistica ci aiuta con altri dati: sono in forte aumento i nuceli familiari nei quali l’unico stipendio arriva dalle donne; d’altra parte, le donne che lavorano e lasciano quando hanno un figlio, negli ultimi sei anni è aumentato di quattri punti. Sembra insomma che la maternità sia diventata un lusso, oltre che restare sempre, per le aziende, un problema.
L’associazione Manageritalia ha presentato una ricerca che ha commissinato alla socetà Astraricerche e i risultati spiegano il calo della maternità. L’83 per cento dei 640 dirigenti d’azienda interpellati, ha confessato candidamente che la maternità di un dipendente è un problema. Risolvibile con una diversa organizzazione, certo; ma comunque un ostacolo. Con meno welfare, con familiari anziani da accudire, con il capo che ti guarda di traverso, è davvero difficile per una donna decidere di diventare madre. Ma un paese senza mamme e senza culle è un paese che non ha futuro. di Cinzia Sasso