Non è un paese per donne "Il nostro paese sottolinea a parole il valore della famiglia, ma non fa granchè per sostenerlo effettivamente..."
venerdì 5 luglio 2013
A scuola è morto l’umanesimo
L’eliminazione o la riduzione ai minimi termini di Storia dell’arte, o di Storia della musica nelle scuole è stato un segnale inquietante passato sotto silenzio. L’abrogazione o quasi degli insegnamenti di Lettere classiche, la chiusura progressiva di discipline con grandi tradizioni ma che apparivano “inutili” (Egittologia, Sanscrito, Sumerologia, Indologia…), ma anche il drastico ridimensionamento delle stesse cattedre di Letteratura italiana (ricordava Alberto Asor Rosa, che alla Sapienza sono passate da 12 a 2!), mentre altre discipline, a cominciare dalla Sociologia – in tutte le sue declinazioni – subivano un processo di vero e proprio imbarbarimento, perdendo ogni sostrato di pensiero, tecnicizzandosi, in senso economico. L’economia, a sua volta, si riduceva alla mera dimensione numerica, mentre i corsi di Storia del pensiero economico sono diventati merce rarissima, e comunque considerati del tutto secondari, mentre un approccio umanistico all’economia oggi è completamente scomparso. La crisi economica ha accelerato il processo. I giovani scelgono indirizzi di studio che sembrano garantir loro un accesso al mondo del lavoro non soltanto più rapidamente, ma con remunerazioni più alte. Che un dentista, o un ingegnere, guadagnino di più di un professore di Latino, lo sanno tutti. Ma che in prospettiva i laureati in Ingegneria o in Medicina siano destinati a svolgere funzioni direttive è tutto da dimostrare. Davanti a questa situazione, che finalizza gli studi al mercato, che considera “utile” soltanto il sapere “pratico”, e che cerca di cancellare la dimensione critica, ci sono reazioni; e che in definitiva fa perdere ai giovani lo stesso piacere dello studio (studium significa “passione”). Come si fa a formare un cittadino senza la Storia? – si stanno chiedendo ad Harvard e in altre università statunitensi. Sembra che un moto di protesta se non ancora di rivolta stia nascendo. Fra vent’anni saremo tutti ingegneri informatici? Tutti economisti? E sapremo dare un senso al nostro lavoro senza avere idea di quel che le grandi civiltà ci hanno consegnato? Potremo affrontare la vita senza la dimensione della critica e lo sguardo aperto sui grandi orizzonti? Un dibattito si è insomma avviato, e non solo negli Usa. In Francia, Gran Bretagna, Germania e altrove, se ne discute. E si cominciano a intravvedere i pericoli di un orientamento tutto praticistico del sapere. Ma non da noi, ancora sotto lo choc delle tre I berlusconiane (Industria, Informatica, Inglese), tutto tace. E dire che da qualche tempo vedo circolare l’espressione “nuovo umanesimo”: articoli, libri, associazioni, gruppi sulle reti sociali, e così via. Piccole enclave di irriducibili, di vario orientamento, che propongono un ritorno, quanto meno simbolico, all’essenza di quella eccezionale stagione della storia, che ebbe il suo motore propulsivo in Italia: ma l’Italia d’oggi – quella ufficiale, ma anche nella stragrande maggioranza della sua popolazione – non sembra preoccupata né tanto meno interessata. È già troppo tardi per avviare un contrattacco?
Nel giugno di 14 anni or sono (esattamente il 18-19), a Bologna, nella sede della più antica università del mondo, la cosiddetta Alma Mater, si riunivano 29 ministri dell’Istruzione e siglavano un accordo, la “Dichiarazione di Bologna”, che avviava il processo che avrebbe dovuto realizzare lo “Spazio Europeo dell’Istruzione Superiore”. Era un contributo all’unificazione del continente. Ma quanti si resero conto delle conseguenze negative che avrebbe avuto quel frettoloso documento? Cominciava allora, in effetti, un gioco al ribasso della qualità, che avrebbe condotto l’Italia nel tunnel del famigerato “3+2”, passando dalla “riforma” di Luigi Berlinguer, agli interventi dei suoi epigoni e continuatori, pur se di diversa appartenenza politica, fino alla devastazione firmata dalla signora Gel-mini e perfezionata dall’ing. Profumo. Nell’ultimo suo libro, Benvenuti in tempi interessanti (casa editrice Ponte alle Grazie) quello che è stato chiamato “il filosofo più pericoloso d’Occidente”, Slavoj Zizek, ha scritto che da Bologna partì “un attacco concertato a ciò che Kant chiamava ‘l’uso pubblico della ragione’”. Veniva, in prospettiva, cancellato il vero, primo compito del pensare: che non è offrire solo soluzioni ai problemi, ma innanzitutto riflettere sulla forma e la natura di quei problemi. Si sostituiva, insomma, al sapere critico, il sapere “utile”, al pensiero libero, un pensiero finalizzato: a cosa? Ai bisogni della società, ossia del mercato, innanzitutto. Da allora in poi nelle università europee, e nelle Scuole di istruzione superiore, secondo una tendenza che attraversava l’Atlantico e si manifestava in America, cominciò una vera e propria aggressione, mediatica e politica, alle discipline umanistiche, e anche alle scienze sociali e politiche. L’eliminazione o la riduzione ai minimi termini di Storia dell’arte, o di Storia della musica nelle scuole è stato un segnale inquietante passato sotto silenzio. L’abrogazione o quasi degli insegnamenti di Lettere classiche, la chiusura progressiva di discipline con grandi tradizioni ma che apparivano “inutili” (Egittologia, Sanscrito, Sumerologia, Indologia…), ma anche il drastico ridimensionamento delle stesse cattedre di Letteratura italiana (ricordava Alberto Asor Rosa, che alla Sapienza sono passate da 12 a 2!), mentre altre discipline, a cominciare dalla Sociologia – in tutte le sue declinazioni – subivano un processo di vero e proprio imbarbarimento, perdendo ogni sostrato di pensiero, tecnicizzandosi, in senso economico. L’economia, a sua volta, si riduceva alla mera dimensione numerica, mentre i corsi di Storia del pensiero economico sono diventati merce rarissima, e comunque considerati del tutto secondari, mentre un approccio umanistico all’economia oggi è completamente scomparso.
Angelo d’Orsi---MICROMEGA
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