domenica 24 novembre 2013

L'Agorà delle donne: Non si uccide per amore

L'Agorà delle donne: Non si uccide per amore: Nella Giornata internazionale contro la violenza sulle donne parlare di come i media affrontano il tema potrebbe sembrare un argomento seco...

Non si uccide per amore

Nella Giornata internazionale contro la violenza sulle donne parlare di come i media affrontano il tema potrebbe sembrare un argomento secondario, rispetto al fenomeno in sé. Si tratta invece, probabilmente, del cuore del problema, visto che la violenza sulle donne è innanzitutto una questione culturale. Se si prova a cercare la parola “femminicidio” negli archivi dei giornali si scopre che essa fa la sua prima comparsa intorno al 2006-2007, per poi diffondersi sensibilmente solo negli ultimi anni. Non che prima, ovviamente, non si consumassero femminicidi, semplicemente non c'era una parola per indicare il fenomeno e i singoli episodi venivano raccontati slegati l'uno dall'altro. Dare un nome alle cose significa “creare” un fenomeno, laddove prima c'erano solo singoli accadimenti. Da qualche tempo, molto lentamente e con grandi lacune, alcuni mezzi di comunicazione (parliamo di carta stampata, la tv è ancora all'anno zero) hanno deciso di tirar fuori dal flusso indistinto degli avvenimenti i casi di donne uccise per aver osato mettere in discussione il loro ruolo e hanno iniziato a dare a questi fenomeni il nome di femminidio (anche se qualcuno ancora storce il naso di fronte a questa parola). Finché non ha un nome, un fenomeno non esiste (e quindi, per esempio, non esistono dati ufficiali su quel fenomeno). La parola “femminicidio” è stata introdotta dalla criminologa statunitense Diana Russell nel 1992, per indicare una categoria criminologica vera e propria: una violenza da parte dell’uomo contro la donna in quanto donna, un atto in cui, cioè, la violenza è il risultato di una precisa cultura del possesso e della sopraffazione. Quello quindi che distingue il femminicidio da ogni altro omicidio, sia di uomini che di donne, è il movente di genere: la donna vittima di femminicidio ha messo in qualche modo in discussione l'idea che l'assassino aveva del suo ruolo. La donna si è “permessa” di tradirlo, di lasciarlo, di voler vivere una vita diversa da quella che avrebbe “dovuto”. Centrale dunque – nella definizione di femminicidio – è il ruolo degli stereotipi di genere. Ecco perché è cruciale il ruolo dei media – che insieme a famiglia, scuola e, in Italia, la Chiesa – sono tra le principali agenzie in senso lato “educative”. Lo stereotipo di genere riguarda i ruoli che uomini e donne dovrebbero avere per natura. Ad essere ingabbiati negli stereotipi, naturalmente, non sono solo le donne, ma gli uomini stessi. La violenza sulle donne si alimenta di un'idea di “aggressività naturale” degli uomini e di una “remissività” altrettanto “naturale” per le donne. Per cui, fin da piccolissimi, siamo portati a distinguere i giochi “da maschio”, che generalmente hanno a che fare con la prestanza fisica, dai “giochi da femmina”, principalmente legati al ruolo di “cura” e da questi primi passi si giunge fino all'idea che l'uomo sia, per natura, “cacciatore” e la donna, per natura, “preda”. I bambini forti e aggressivi, le bambine docili e accudenti. Le donne sono indotte a cercare conferma della propria femminilità nello sguardo “desiderante” degli uomini, gli uomini quella della loro virilità nella “quantità” di “prede” che riescono a mettere nel sacco. È all'interno di questa cultura arcaica, ma ancora profondamente radicata, che si consumano le violenze sulle donne. E purtroppo parliamo di una cultura ancora ampiamente diffusa, persino tra le giovani generazioni: non possiamo non ricordare il femminicidio di Fabiana Luzzi, 16 anni, uccisa a Corigliano Calabro dal fidanzato “geloso”. “Gelosia” è una delle parole più ricorrenti quando giornali e tv raccontano un femminicidio. Assieme a raptus, follia, depressione, scatto d'ira, tragedia familiare, amore (magari malato, ma sempre amore). Ingredienti che cucinati tutti insieme inducono, anche se non intenzionalmente, da un lato, a cercare un concorso di colpe da parte della vittima (quasi come se se la fosse cercata) e, dall'altro, se non ad assolvere, quantomeno a giustificare il carnefice, descrivendolo di norma come un pover'uomo follemente innamorato preso da una passione irrefrenabile, che ha agito in preda ad un “raptus”. Insomma, l'assassino non “agisce” ma “re-agisce” ad un comportamento della vittima. Comportamento che di solito consiste semplicemente nell'affermazione della propria autonomia e libertà (“Lei voleva cambiare casa e lavoro e il marito geloso l'ha massacrata”, titolava un quotidiano nazionale in un recente caso di femminicidio: causa ed effetto). Insomma, se la donna mette in discussione il ruolo che lei stessa, il compagno, la famiglia, la società le hanno cucito addosso lo fa a suo rischio e pericolo. Questo modo di ragionare è stato persino messo nero su bianco dal parroco di Lerici che qualche tempo fa, proprio dopo l'ennesimo caso di femminicidio, aveva affisso sulla bacheca della sua parrocchia un delirante articolo tratto dal sito cattolico integralista pontifex.it intitolato “Le donne e il femminicidio. Facciano sana autocritica: quante volte provocano?”, in cui si leggeva: “Le donne sempre più spesso provocano, cadono nell’arroganza, si credono autosufficienti”. Per disinnescare questi meccanismi culturali che spesso insidiano inconsapevolmente anche chi ritiene di esserne immune potrebbe essere utile, innanzitutto a partire dai giornali, iniziare a chiamare le cose con il proprio nome. Sostituire la parola gelosia, per esempio, con volontà di possesso, amore con dominio, avances con molestie, passione con aggressione. E forse inizierebbe a cambiare anche la nostra percezione della realtà. Non si uccide perché si ama ma perché non si riesce a concepire la propria compagna al di fuori della funzione che le è stata assegnata. La violenza sulle donne è il frutto sistematico di una cultura arcaica, maschilista e patriarcale centrata sull'idea del possesso e della sopraffazione che ancora caratterizza il nostro paese. Non possiamo dimenticare che fino al 1981 il “delitto d'onore” era una fattispecie del nostro ordinamento che concedeva attenuanti agli assassini ed era anzi spesso percepito dalla comunità come un dovere per ristabilire, appunto, l'onore leso. E addirittura ancora fino al 1996 lo stupro era rubricato dal nostro codice penale tra i delitti contro la moralità e il buon costume anziché contro la persona. La violenza contro le donne, dunque, non è affatto un'emergenza, altra parola abusata dai media. Emergenza è un evento improvviso, imprevisto e imprevedibile. La violenza sulle donne è figlia della nostra “civiltà”, è un portato strutturale e non emergenziale della nostra cultura più profonda e radicata. Alle emergenze si risponde con interventi emergenziali, ai problemi strutturali con cambiamenti culturali. di Cinzia Sciuto

martedì 9 luglio 2013

Le disuguaglianze insostenibili

Mentre le ultime rilevazioni dell’Istat indicano un vero e proprio crollo dei consumi delle famiglie, uno studio commissionato dall’Unione Europea, Gini-Growing inequality impact, ha messo in evidenza che l’Italia è tra i paesi europei che registrano le maggiori diseguaglianze nella distribuzione dei redditi, seconda solo al Regno Unito, e con livelli di disparità superiori alla media dei paesi Ocse. Non solo: da noi la favola di Cenerentola si avvera con sempre minor frequenza, nel senso che le unioni si verificano non tanto tra fasce di reddito diverse ma entro le stesse fasce frenando la mobilità sociale. Inoltre, appare che la ricchezza si sta spostando verso la popolazione più anziana accentuando il divario tra generazioni. Il crollo dei consumi in Italia è dunque associato ad un divario nella distribuzione della ricchezza che si è accentuato durante la crisi: oggi circa la metà del reddito totale è in mano al 10% delle famiglie, mentre il 90% deve dividersi l’altra metà. La domanda che si impone è: come siamo arrivati a questo punto? La risposta non è difficile: questa situazione va ricondotta al pensiero dominante di ispirazione neoliberista, che si è affermato all’inizio degli anni ’80 negli Stati Uniti e in Inghilterra e che poi ha influenzato la politica economica dell’Unione europea. La teoria economica neoliberista si fonda sull’assunto che la diseguaglianza non inficia in alcun modo la crescita. Anzi, detassare redditi e soprattutto patrimoni immobiliari e mobiliari dei più ricchi genererebbe un “effetto a cascata” che dai piani alti della società trasferirebbe la ricchezza fino ai piani bassi, portando ad un arricchimento generale e ad una maggiore crescita. Questa idea ha aperto la strada alle privatizzazioni e alladeregulatio dei mercati finanziari (inclusa la proliferazione dei paradisi fiscali) per permettere agli “spiriti animali” di dispiegare liberamente tutta la loro forza propulsiva. Così lo Stato diventa un “disturbatore”, fonte di sprechi e di inefficienza, e pertanto deve essere ridotto ai minimi termini. “La società non esiste, ci sono solo individui e famiglie. E nessun governo può far nulla. La gente deve pensare a se stessa”: così Margaret Thatcher in una sentenza diventata tristemente famosa. Dall’inizio degli anni ’80, il drastico ridimensionamento della capacità di intervento dello Stato nell’economia e il progressivo indebolimento dei lavoratori, che cominciano a subire i ricatti delle delocalizzazioni produttive, interrompono l’espansione della classe media che si era registrata nell’Età dell’Oro (1945-1973). Ma una crescita fondata su diseguaglianze crescenti può destabilizzare l’economia riportando indietro di anni il livello di benessere della popolazione. Joseph Stiglitz ha sintetizzato i risultati delle sue ricerche in una formula che dimostra come diseguaglianza e sviluppo economico siano inversamente proporzionali. Insomma, l’effetto a cascata auspicato dai liberisti non si è assolutamente verificato e sono risultati evidenti gli effetti nefasti della polarizzazione della ricchezza, così come era stato teorizzato da Karl Marx. Dopo la crisi esplosa nel 2008 lo Stato è dovuto intervenire massicciamente per salvare il settore privato dal collasso, il che ha determinato un’espansione rapidissima del rapporto tra debito pubblico e Pil in tutti i paesi avanzati. E ora si è scatenata una nuova controffensiva del settore privato e dei mercati per tagliare i servizi sociali e più in generale la spesa pubblica aggravando la situazione delle fasce più deboli ed alimentando diseguaglianze sempre più marcate. Il ceto medio è il vero motore dei consumi sia perché rappresenta la fascia più larga della popolazione, sia perché tende a convertire in consumi una percentuale proporzionalmente molto più elevata del proprio reddito. Se far ripartire i consumi è una delle principali chiavi per promuovere l’intera economia ecco allora l’importanza di politiche che favoriscano una più equa distribuzione della ricchezza ed il rafforzamento del middle class. La politica dei redditi deve dunque tornare al centro della politica economica se vogliamo uscire dalla crisi che sta alimentando tensioni sociali destinate a diventare insostenibili. (9 luglio 2013 di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini, da Repubblica, 9 luglio 2013--MICROMEG

venerdì 5 luglio 2013

A scuola è morto l’umanesimo

L’eliminazione o la riduzione ai minimi termini di Storia dell’arte, o di Storia della musica nelle scuole è stato un segnale inquietante passato sotto silenzio. L’abrogazione o quasi degli insegnamenti di Lettere classiche, la chiusura progressiva di discipline con grandi tradizioni ma che apparivano “inutili” (Egittologia, Sanscrito, Sumerologia, Indologia…), ma anche il drastico ridimensionamento delle stesse cattedre di Letteratura italiana (ricordava Alberto Asor Rosa, che alla Sapienza sono passate da 12 a 2!), mentre altre discipline, a cominciare dalla Sociologia – in tutte le sue declinazioni – subivano un processo di vero e proprio imbarbarimento, perdendo ogni sostrato di pensiero, tecnicizzandosi, in senso economico. L’economia, a sua volta, si riduceva alla mera dimensione numerica, mentre i corsi di Storia del pensiero economico sono diventati merce rarissima, e comunque considerati del tutto secondari, mentre un approccio umanistico all’economia oggi è completamente scomparso. La crisi economica ha accelerato il processo. I giovani scelgono indirizzi di studio che sembrano garantir loro un accesso al mondo del lavoro non soltanto più rapidamente, ma con remunerazioni più alte. Che un dentista, o un ingegnere, guadagnino di più di un professore di Latino, lo sanno tutti. Ma che in prospettiva i laureati in Ingegneria o in Medicina siano destinati a svolgere funzioni direttive è tutto da dimostrare. Davanti a questa situazione, che finalizza gli studi al mercato, che considera “utile” soltanto il sapere “pratico”, e che cerca di cancellare la dimensione critica, ci sono reazioni; e che in definitiva fa perdere ai giovani lo stesso piacere dello studio (studium significa “passione”). Come si fa a formare un cittadino senza la Storia? – si stanno chiedendo ad Harvard e in altre università statunitensi. Sembra che un moto di protesta se non ancora di rivolta stia nascendo. Fra vent’anni saremo tutti ingegneri informatici? Tutti economisti? E sapremo dare un senso al nostro lavoro senza avere idea di quel che le grandi civiltà ci hanno consegnato? Potremo affrontare la vita senza la dimensione della critica e lo sguardo aperto sui grandi orizzonti? Un dibattito si è insomma avviato, e non solo negli Usa. In Francia, Gran Bretagna, Germania e altrove, se ne discute. E si cominciano a intravvedere i pericoli di un orientamento tutto praticistico del sapere. Ma non da noi, ancora sotto lo choc delle tre I berlusconiane (Industria, Informatica, Inglese), tutto tace. E dire che da qualche tempo vedo circolare l’espressione “nuovo umanesimo”: articoli, libri, associazioni, gruppi sulle reti sociali, e così via. Piccole enclave di irriducibili, di vario orientamento, che propongono un ritorno, quanto meno simbolico, all’essenza di quella eccezionale stagione della storia, che ebbe il suo motore propulsivo in Italia: ma l’Italia d’oggi – quella ufficiale, ma anche nella stragrande maggioranza della sua popolazione – non sembra preoccupata né tanto meno interessata. È già troppo tardi per avviare un contrattacco? Nel giugno di 14 anni or sono (esattamente il 18-19), a Bologna, nella sede della più antica università del mondo, la cosiddetta Alma Mater, si riunivano 29 ministri dell’Istruzione e siglavano un accordo, la “Dichiarazione di Bologna”, che avviava il processo che avrebbe dovuto realizzare lo “Spazio Europeo dell’Istruzione Superiore”. Era un contributo all’unificazione del continente. Ma quanti si resero conto delle conseguenze negative che avrebbe avuto quel frettoloso documento? Cominciava allora, in effetti, un gioco al ribasso della qualità, che avrebbe condotto l’Italia nel tunnel del famigerato “3+2”, passando dalla “riforma” di Luigi Berlinguer, agli interventi dei suoi epigoni e continuatori, pur se di diversa appartenenza politica, fino alla devastazione firmata dalla signora Gel-mini e perfezionata dall’ing. Profumo. Nell’ultimo suo libro, Benvenuti in tempi interessanti (casa editrice Ponte alle Grazie) quello che è stato chiamato “il filosofo più pericoloso d’Occidente”, Slavoj Zizek, ha scritto che da Bologna partì “un attacco concertato a ciò che Kant chiamava ‘l’uso pubblico della ragione’”. Veniva, in prospettiva, cancellato il vero, primo compito del pensare: che non è offrire solo soluzioni ai problemi, ma innanzitutto riflettere sulla forma e la natura di quei problemi. Si sostituiva, insomma, al sapere critico, il sapere “utile”, al pensiero libero, un pensiero finalizzato: a cosa? Ai bisogni della società, ossia del mercato, innanzitutto. Da allora in poi nelle università europee, e nelle Scuole di istruzione superiore, secondo una tendenza che attraversava l’Atlantico e si manifestava in America, cominciò una vera e propria aggressione, mediatica e politica, alle discipline umanistiche, e anche alle scienze sociali e politiche. L’eliminazione o la riduzione ai minimi termini di Storia dell’arte, o di Storia della musica nelle scuole è stato un segnale inquietante passato sotto silenzio. L’abrogazione o quasi degli insegnamenti di Lettere classiche, la chiusura progressiva di discipline con grandi tradizioni ma che apparivano “inutili” (Egittologia, Sanscrito, Sumerologia, Indologia…), ma anche il drastico ridimensionamento delle stesse cattedre di Letteratura italiana (ricordava Alberto Asor Rosa, che alla Sapienza sono passate da 12 a 2!), mentre altre discipline, a cominciare dalla Sociologia – in tutte le sue declinazioni – subivano un processo di vero e proprio imbarbarimento, perdendo ogni sostrato di pensiero, tecnicizzandosi, in senso economico. L’economia, a sua volta, si riduceva alla mera dimensione numerica, mentre i corsi di Storia del pensiero economico sono diventati merce rarissima, e comunque considerati del tutto secondari, mentre un approccio umanistico all’economia oggi è completamente scomparso.
Angelo d’Orsi---MICROMEGA

mercoledì 26 giugno 2013

L’EVASIONE FISCALE E LA SCUOLA

Quando si parla di evasione fiscale, giustamente le categorie a reddito fisso vengono escluse, ma non è sempre così. Infatti, nella scuola c’è una forte evasione fiscale sommersa, difficile da scoprire e combattere, mi riferisco alle lezioni private. Il loro costo grava sul bilancio delle famiglie e su quello del fisco in maniera pesante e consente agli insegnanti di avere un reddito in nero, a volte superiore allo stipendio, (un’ora di lezione privata viene compensata con una cifra che oscilla tra i 30 e i 50 euro). Il modo per combattere questo tipo di evasione c’è, basterebbe istituire dei corsi di recupero pomeridiani per tutte le materie, per gli alunni in difficoltà, con gli insegnanti della scuola e se non bastano quelli disponibili ricorrere agli insegnanti della graduatoria dei supplenti. Fare corsi dove ogni classe non superi i 15 alunni , finanziati con un fondo specifico congruo , programmati per tutto l'anno scolastico, concentrati nel periodo iniziale e in prossimità della valutazione trimestrale o quadrimestrale. Ciò comporterebbe, che gli insegnanti che desiderano legittimamente lavorare di più, per arrotondare il loro inadeguato stipendio, possano farlo, le famiglie risparmierebbero, in questo periodo di crisi il bisogno c’è, e il fisco incasserebbe la cifra evasa. Queste considerazioni, fondate su una semplice soluzione praticata solo in parte, perché i corsi di recupero effettuati nelle scuole sono inadeguati, svolti spesso con un numero troppo alto di alunni e per periodi troppo brevi, fatti meglio potrebbero aiutare concretamente gli alunni in difficoltà e le famiglie eviterebbero di ricorrere alle lezioni private. Bisogna trovare soluzioni eque nell’interesse della collettività, se si vuole veramente dare una concreta svolta positiva ad una società, che sino ad ora ha considerato il pagare le tasse come qualcosa da evitare, l’interesse e i risparmi delle famiglie, come qualcosa da non considerare. Piera Repici

sabato 16 marzo 2013

ESPRIMIAMO SOLIDARIETA' AI SENATORI DEL MSS

CHE HANNO VOTATO PIETRO GRASSO E LI RINGRAZIAMO PER IL LORO GESTO DI RESPONSABILTA' NEI CONFRONTI DEL PAESE In democrazia e nel nostro Parlamento non c'è vincolo di mandato, e i Senatori del MSS hanno agito secondo coscienza e nell'interesse del Paese ed hanno preferiro votare l'antimafia e non la mafia. La scomunica di Beppe Grillo: «Fuori chi ha votato Grasso» Il leader CinqueStelle punta il dito contro i senatori M5S siciliani che hanno appoggiato il candidato del centrosinistra e intima le dimissioni. Ma sul blog i lettori lo mettono brutalmente in minoranza. Queste le parole di Grillo: "Nella votazione di oggi per la presidenza del Senato è mancata la trasparenza. Il voto segreto non ha senso, l'eletto deve rispondere delle sue azioni ai cittadini con un voto palese. Se questo è vero in generale, per il MoVimento 5 Stelle, che fa della trasparenza uno dei suoi punti cardinali, vale ancora di più. Per questo vorrei che ogni senatore del M5S dichiari come ha votato. Nel "Codice di comportamento eletti MoVimento 5 Stelle in Parlamento" sottoscritto liberamente da tutti i candidati, al punto Trasparenza è citato: - Votazioni in aula decise a maggioranza dei parlamentari del M5S. Se qualcuno si fosse sottratto a questo obbligo ha mentito agli elettori, spero ne tragga le dovute conseguenze."

CORSI DI RECUPERO

“Nell’erogazione del Fondo d’Istituto, quest’anno è stata evidenziata la priorità che le scuole devono rispettare nell’utilizzazione delle risorse assegnate ed erogate per il cosiddetto FIS per le attività didattiche di recupero”. In altre parole, questo significa che il Ministero ha fornito alle scuole i fondi necessari all’attivazione dei corsi di recupero e queste, nella gestione di tali fondi, devono proprio dare priorità a tutte le attività che consentano agli studenti di recuperare le loro insufficienze a scuola. Insomma, stando alle parole del Ministero: “Si può affermare che le scuole sono nella condizione di poter fornire agli studenti il necessario supporto didattico ai fini del recupero e che il Ministero ha provveduto alla erogazione dei fondi necessari per l’attuazione delle misure di recupero previste dalle norme. La Tecnica della Scuola