martedì 28 settembre 2010

“Bisogna essere una donna anti-patriarcale per poter cambiare le cose.


Genevieve Vaughan
Ricercatrice americana trapiantata in Italia e teorica di un sistema economico basato sullo scambio privo di interesse personale
Silvia Vaccaro
La crisi del sistema capitalista e l’andamento disastroso delle economie di alcuni paesi occidentali nell’ultimo anno hanno aperto un dibattito: oggetto della discussione l’infallibilità del neoliberismo e la possibile apertura a nuove forme di economia. Durante una conferenza sul matriarcato, ho incontrato Genevieve Vaughan, ricercatrice americana trapiantata in Italia, che ha elaborato la “teoria del dono”, un sistema economico basato sullo scambio ma privo di interesse personale. “Penso che si debba e si possa ripartire dal dono soprattutto in un momento di crisi come questo – ha spiegato Genevieve – e dal dare per soddisfare i bisogni dell’altro, non per ottenere un profitto, proprio come fanno le madri coi figli o nelle comunità indigene sparse per il pianeta: solo così può crescere un’umanità migliore e più attenta.” Le ho chiesto come si colloca il femminismo in questo senso. “Credo che il femminismo di per sé è una sorta di dono, perché le donne hanno tentato di restituire alle loro compagne quello che la società patriarcale ha tolto loro nei secoli. Inoltre le donne assolvono ancora oggi una funzione di ‘donans’ nei confronti della società in generale: questa nostra predisposizione al dono e il suo riconoscimento sono vitali per l’umanità intera.”
Le ho chiesto se la presenza di un maggior numero di donne nei governi possa facilitare l’affermarsi dell’economia del dono e lei, sorridendo, ha dichiarato che le donne che hanno un atteggiamento patriarcale e sfruttano il sistema vigente invece che rovesciarlo, non favoriscono di certo un’economia alternativa. “Bisogna essere una donna anti-patriarcale per poter cambiare le cose. Nel subconscio tutte abbiamo la vocazione al dono, ma alcune di noi credono ancora nell’economia capitalista, nonostante tutti i giorni abbiamo le prove che questo sistema genera ingiustizie e disastri. È solo uno specchietto per le allodole: le donne attratte dal capitalismo, che ne vogliono fare parte, non sanno valutarne la portata negativa. Credo dunque che bisognerebbe creare un’economia completamente diversa, non di mercato, ma un’economia del dono generalizzato. Alcuni esempi sono i software gratis che si trovano su internet, o wikipedia, o la condivisione delle informazioni tramite mailing list. È difficile pensare ad un sistema economico alternativo ma spero che, anche grazie alla rete, sarà sempre più semplice condividere e donare agli altri.”
Il dono in parte viene messo in pratica anche nelle nostre società capitaliste, ma l’azione del “donare” non è riconosciuta come un valore. Ancora meno viene riconosciuta l’importanza del ruolo materno e di educazione al dono, portato avanti dalle donne. “L’umanità non vuole riconoscere che tutti crescono in una economia del dono, perché i bambini piccoli ricevono senza dare, non potendo scambiare alla pari con gli adulti. In passato, nelle cosiddette civiltà primitive, esisteva una continuità tra l’infanzia e il mondo degli adulti e venivano mantenute alcune pratiche come quella del dono. Nelle nostre società occidentali invece l’apporto delle madri e dei piccoli non è preso in considerazione come dovrebbe. Io credo che i bambini spesso possano insegnare a noi come comportarci, pensiamo ad esempio a come trattano la natura, noi dovremmo imparare da loro, noi che l’abbiamo devastata!”
Nelle società indigene, tuttora, le economie sono costruite sulle pratiche del dono, mentre le economie occidentali sono costruite solo sullo scambio, sull’interesse personale, sulle sopraffazioni. Secondo Vaughan “capitalismo e patriarcato combaciano: i valori dell’uno sono molto simili a quelli dell’altro. Nonostante alcuni difensori del neoliberismo affermino che il mercato offre la possibilità di vivere in una società più giusta e più equa di quella patriarcale, questa è una bugia: l’ineguaglianza è solo spostata su un piano diverso, un piano materiale.” La lucidità delle riflessioni di Genevieve mi porta ad affermare che una lotta seria contro il patriarcato dovrebbe partire, o quantomeno considerare, una revisione dell’economia vigente dalle sue fondamenta.

(27 settembre 2010)

venerdì 24 settembre 2010

il coraggio delle donne,,,.. Teresa Buonocore


Comunicato per Teresa. Uccisa il 20 settembre del 2010 Martedì 21 Settembre 2010 14:07 UDI Napoli
Teresa Buonocore è morta, uccisa da sconosciuti, dai soliti sconosciuti.
Abbracciare e solidarizzare coi figli, o aver plaudito al coraggio di Teresa nel proteggere la sua bambina per proteggerne altre, è ed è stato doveroso, ma comunque la cosa più comoda che si possa fare.

Si deve dire di più quando una donna muore essendo l'ultima vittima del coraggio di lasciare, denunciare, ribellarsi.
Teresa Buonocore è l'ultima donna vittima di una lunga teoria di uccisioni, nella quale la straordinaria coincidenza tra un evidente fare camorristico dei carnefici, il mutismo dei testimoni occasionali e l'autodifesa in solitudine delinea la qualità del patto sociale.
Come in molta parte della difesa dei diritti delle cittadine, sul femminicidio lo Stato Italiano è flebilmente presente, e lo è per lo più solo dal punto di vista comunicativo. Si tratta di una comunicazione alla quale si sono piegati anche alcuni media, sottolineando sempre ed ossessivamente "la necessità del coraggio da parte delle vittime".
Teresa ha avuto coraggio. Di più ha elargito dignità, pagando nei tribunali e fuori, fino ad essere soppressa.

Noi dobbiamo avere fiducia negli inquirenti, perché con loro abbiamo costruito un rapporto di collaborazione nel sostegno alle vittime che "hanno il coraggio di denunciare", un protocollo tra femminismo e questura di Napoli. Abbiamo anche noi avuto coraggio, a sperimentare una strada che nel 2005 sembrava impercorribile, avviando il dialogo nei luoghi dove la violenza è intercettata: commissariati ed ospedali.
Teresa ha avuto coraggio ed ha investito su una risposta che dallo Stato non è venuta. Non si tratta di fatalità, come non lo è stata per Matilde Sorrentino, nemmeno a dirlo, uccisa con modalità camorristiche, per aver difeso i figli di tutte dagli orchi di Torre Annunziata.
C'è tanto da fare nel nostro paese, simbolicamente, a partire dai luoghi dove la proprietà sui corpi e la pretesa del silenzio esibiscono l'affronto aperto alla sovranità dello Stato di diritto. Non si tratta solo del Sud, o almeno si tratta di quel sud che è ovunque la comunità nazionale individua nella vittima "la colpa di non aver avuto coraggio, ed insieme di averne avuto troppo", cioè dovunque c'è una cittadina di serie b, una donna.

In questi giorni Dacia Maraini ha affermato che la serie infinita dei femminicidi mostra la scomposta reazione alla maggiore richiesta di libertà delle donne, merito, ha detto, del femminismo.
Noi aggiungiamo che c'è un altro merito, taciuto ancora pervicacemente nella categoria "e femministe dove sono?", oltre la rivendicazione della sacrosanta libertà, di tutti, dalle violenze contro le donne. È il merito di aver promosso il "tema culturale" del femminicidio, facendolo approdare tra le istanze di piena responsabilità e competenza del potere politico.

Se i cittadini spettatori non parlano, se le vittime sono sole, se alle donne viene chiesto il coraggio di morire, se lo Stato protesta come un comune cittadino e come quello si rifugia nella retorica, vuol dire che manca qualcosa. Nella difesa di molti diritti manca qualcosa, ma quel qualcosa che manca nel caso delle uccisioni sistematiche delle donne è la presenza simbolica dello Stato, che altrove si esprime se pure in modo inefficiente.
Contro altri reati, lo Stato tiene a difendersi dalle accuse dei cittadini per i suoi insuccessi. Questo perché il danno provocato dei reati camorristici, comunemente detti, e corruttivi, comunemente detti, con leggi e provvedimenti, è riconosciuto formalmente come danno allo stato ed alla comunità tutta.
Contro le violenze sulle donne e la loro uccisione, non è avvenuto nulla di più che l'introduzione di una parola, che sembra uno sport (stalking, che come dice Maraini andrebbe sostituita con persecuzione) e la diffusione di uno spot che reclamizza un prodotto che non si vende e non è a disposizione dello Stato: il coraggio delle donne.

Il dolore che di nuovo proviamo è pieno di rabbia.

UDI di Napoli

mercoledì 1 settembre 2010

la scuola pubblica nonostante riforme improvvisate, proclami, minacce e calunnie continua a camminare


Insegnanti «mamme» o «amiche»,
noi «gentiliane» sembriamo strambe
La lettera
Gentile Direttore, ho apprezzato l'articolo di Giovanni Belardelli (Corriere di venerdì) sulla crisi della scuola e dei docenti, che vivo dall'interno come insegnante di tedesco alle superiori. Spesso ci sentiamo soli, isolati, non solo perché il nostro lavoro è poco riconosciuto, ma anche perché all'interno della scuola in genere ci sono troppi conflitti e manca per così dire lo spirito di corpo, il fatto di essere una squadra; scuola quindi specchio di una società divisa, a volte con conseguenze negative per gli studenti… Non credo molto nella valutazione degli insegnanti attraverso esami che riconoscano il merito, perché anche nella scuola, come nella società, ci sono tante parrocchie e parrocchiette, con i rispettivi santi protettori, che non sono in cielo, ma sulla terra e spesso sono molto, molto influenti.

Vorrei precisare inoltre che il punteggio non dipende solo dall'anzianità di servizio, ma anche dal fatto di avere o meno dei figli (retaggio dell'epoca mussoliniana?): se non sbaglio, 4 punti ogni anno per i figli fino a 5 o 6 anni, 3 punti ogni anno fino al compimento dei 18 anni. Ma il ministro Gelmini non aveva detto che la scuola non è un ente assistenziale? Subito dopo i precari, sono stati gli insegnanti di ruolo single/senza figli le prime vittime della riforma; come mantenere l'entusiasmo dei primi tempi, se quello che si fa per migliorare e coinvolgere gli alunni non viene comunque riconosciuto? Scambi con l'estero, progetti europei, certificazioni, le famose visite di istruzione, dette comunemente «gite», progetti per gli studenti stranieri ecc. sono tutti extra miseramente retribuiti, che non valgono nemmeno per il punteggio. La conclusione è che la scuola in generale si basa sulla buona volontà o sul coraggio degli insegnanti, precari o di ruolo. Stop. Gli insegnanti «gentiliani», che sono stati anche i miei insegnanti e i miei modelli, sono una specie in via di estinzione.

Chi c'è al loro posto? Potrei fare qualche esempio: l'insegnante «mamma», che considera prevalente l'elemento educativo, sicuramente parte dell'insegnamento, con la certezza inossidabile che una madre sia automaticamente una brava educatrice (risposta di una collega a un mio intervento durante un consiglio di classe: «Tu queste cose non le puoi capire, perché non hai figli»); in genere provenienti da un ambito cattolico, pensano di essere le uniche depositarie dei valori. Ancora, l'insegnante «amicone»: si veste e si comporta come un adolescente anche oltre i 40 anni, i suoi voti scendono raramente sotto il sei e ama sparlare degli altri insegnanti con gli alunni; l'insegnante «psicologa» si occupa prevalentemente del disagio adolescenziale, che in qualche caso si manifesta singolarmente in modo acuto in occasione di compiti in classe e interrogazioni. Un altro caso è l'insegnante in «standby», a cui mancano pochi anni alla pensione, che ripete le stesse lezioni quasi senza cambiare una virgola, come un vecchio attore, pensando all'ambito traguardo. Poi l'insegnante «burocrate», che usa volentieri il linguaggio tecnico della scuola: se gli rivolgi una domanda con parole comuni ti guarda perplesso e non risponde. Io credo di essere nella categoria degli scettici e dei dubbiosi, che non si fanno illusioni, ma cercano alla lontana di essere «gentiliani», tollerati da alcuni colleghi come fossili viventi, persone un po' strambe che non vogliono omologarsi, ma pensare con la loro testa. Però, se la scuola pubblica nonostante riforme improvvisate, proclami, minacce e calunnie continua a camminare, magari in modo incerto, vuol dire che ci sono ancora bravi insegnanti che amano il loro lavoro sottostimato, sottopagato, sottovalutato, in altre parole sotterraneo. Cordiali saluti

Nadia Marchetti
Laveno (Va)
01 settembre 2010