Non è un paese per donne "Il nostro paese sottolinea a parole il valore della famiglia, ma non fa granchè per sostenerlo effettivamente..."
sabato 18 dicembre 2010
Verso un neo-rinascimento
Intervista a Ilaria Borletti Buitoni
Verso un neo-rinascimento
Alla base della coscienza civile di una nazione c’è l’amore per l’arte, per la natura, per i valori civili e per la cultura
Elena Ribet
Ilaria Borletti Buitoni è milanese per nascita e cittadina del mondo per vocazione. Da sempre impegnata ai massimi livelli in ambiti imprenditoriali e nel volontariato, ha fatto dell’impegno civile la sua principale aspirazione. Da gennaio 2010 è presidente del FAI, Fondo Ambiente Italiano.
L’Italia sta vivendo una profonda crisi culturale, economica e anche politica. Secondo lei esiste ancora una dimensione pubblica dell’amore, inteso come impegno per un bene comune?
Esiste poco di questo tipo di ‘amore’ se paragoniamo l’Italia a un paese come l’Inghilterra. Ma se guardiamo entro i nostri confini, questo ‘amore’ inizia a farsi di nuovo sentire. Rispetto a dieci anni fa, la percezione che il patrimonio culturale sia un bene comune è più forte. Certamente siamo ancora troppo indietro, basti pensare al fatto che il National Trust può contare su tre milioni e mezzo di soci. Questo ci fornisce un’indicazione sia per quanto riguarda il sentimento delle persone nei confronti delle eredità artistiche che di quelle naturali. Ma ho l’impressione che stiamo migliorando, più fra le persone che nelle istituzioni.
In che modo, secondo lei, proprio le istituzioni insieme alla cittadinanza possono collaborare per una ‘ricostruzione civile’ del nostro paese?
L’unica forma di collaborazione utile è che per la politica diventi un imperativo aggiungere nei suoi programmi la tutela del patrimonio culturale. Ma il fatto di ‘sentirlo’ come qualcosa di giusto e irrinunciabile non può che venire dalla società civile, la quale si esprime in tal senso e si fa portatrice di istanze precise. Credo che si debba ripartire dal sistema scolastico italiano, che è in crisi ormai da vent’anni. L’amore per l’arte e per la natura si insegna a scuola, invece il nostro paese ha prediletto valori molto diversi, chiamiamoli ‘televisivi’, e questo ha messo in secondo piano quei valori civili e di cultura che fanno parte della coscienza civile di una nazione. Questa dicotomia partecipata porterebbe senz’altro ad adottare misure, peraltro già in atto in altri paesi europei, che permetterebbero non solo la cura e la salvaguardia delle bellezze del nostro Paese, ma anche un impegno assunto in prima persona, da ciascuna persona.
Quali sono queste misure?
In primo luogo occorre limitare il consumo di suolo che in Italia è il più alto d’Europa, proteggendo il paesaggio e l’ambiente. In secondo luogo si potrebbero incentivare i soggetti privati, sia proprietari che finanziatori, a sostegno della tutela del patrimonio d’arte, ad esempio attraverso agevolazioni quali la detassazione. Questo avviene normalmente in Inghilterra, dove per la valorizzazione e la gestione dei beni culturali i soggetti privati non solo sono determinanti, ma lavorano con un forte spirito di cooperazione e in sinergia con gli apparati pubblici, i quali hanno, a loro volta, efficaci strumenti normativi di controllo. In terzo luogo, penso che per i cinquanta siti più importanti d’Italia, tra cui Pompei, si dovrebbe realizzare una situazione analoga a quella della Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano oppure del Vaticano, cioè squadre permanenti che monitorizzino lo stato dei beni in questione con una manutenzione competente e costante.
(13 dicembre 2010)
lunedì 6 dicembre 2010
BELLA DENTRO (fuori non ce l'ho fatta)
Teatro
Graffiante, ironica, profetica, Grazia Scuccimarra porta in scena un altro spettacolo di successo
Elena Ribet
L’Italia sarebbe migliore se avessimo Grazia Scuccimarra in prima serata a reti unificate, pubbliche e private, almeno una volta al mese. Invece facciamo la fila in teatro per vederla, sì, proprio la fila, perché lo spettacolo BELLA DENTRO ha registrato il pienone per tutta la programmazione di novembre al Teatro dei Satiri di Roma.
Non ci si annoia mai a sentirla parlare, mentre lei ci spiattella in faccia la realtà, senza elusioni, strappandoci una risata anche nella desolazione in cui viviamo. Senza risparmiare nessuno: uomini e donne, poteri e debolezze, sondando tutte le dimensioni dell’esistenza, dal lavoro alle relazioni, dagli alti ideali alle mediocrità; con la sua satira la Dottoressa Scuccimarra ci fa a pezzi e poi ci ricuce insieme migliori di prima. Altro che chirurgia plastica.
Troppo scomoda per la televisione, dove oltre che bucare lo schermo bucherebbe le ipocrisie del nostro tempo, Grazia Scuccimarra non si nega al suo pubblico e ci regala un’esibizione unica, imperdibile, liberatoria.
Qualche giorno fa le abbiamo chiesto come sta andando, e lei ha risposto “Benissimo, trionfale, meglio degli altri anni! Nonostante la crisi…”.
Si vede che c’è proprio sete di sentire la voce di questa grande artista, autrice e, diciamolo, anche acuta opinionista, che ha saputo leggere e interpretare con largo anticipo i segnali del decadimento (e non parliamo di quello estetico né di quello esteriore).
Che succede alla cultura nel nostro Paese?
“La cultura… è crollata, come la Domus dei gladiatori di Pompei. L’Italia sta così, nello spettacolo come dappertutto. Il problema del berlusconismo non è tanto lui, quanto i danni che ha portato a questa società e i cui effetti sono perduranti, vedi la mentalità diffusa che si è formata.” Certo anche noi abbiamo delle responsabilità, e non basta “staccare la tv e non leggere i libri e le riviste editi dal cavaliere” (cioè quasi tutto quel che c’è in circolazione nelle edicole e nelle librerie).
Responsabili un po’ lo siamo, ma abbiamo avuto davvero la libertà di scegliere e di ascoltare idee e valori diversi? O forse siamo stati totalmente incantati e sedotti da un’ipnosi collettiva?
Come dice Grazia Scuccimarra, “non stiamo ancora vedendo la fine di Berlusconi, non può permettersi di cadere… non lo fanno cadere perché non hanno individuato il sito dove buttare le scorie”. Ciò che sta accadendo dovrebbe indurre la gente a fare un sit-in permanente, in piazza, a rotazione. Anche per anni. Ci andrebbe una protesta forte, una mobilitazione di massa. Chiediamo a Grazia una nota positiva.
“Una speranza per ora non la vedo… magari dietro l’angolo ci sarà un rigurgito di dignità, me lo auguro, altrimenti non c’è niente da fare. Ma la dignità fa parte di quei sentimenti che si sono persi. Forse nei giovani, ecco, spero nella generazione dei ventenni e dei trentenni, insomma in quella generazione che vive nella precarietà globale. Sì, spero proprio in quelli che oggi si chiamano ‘precari’. Poi, occorre che si torni a una politica per la scuola di ogni ordine e grado, per la quale impiegherei la maggior parte delle risorse della finanziaria. Solo la scuola può salvare questa società dalla morte alla quale la stanno condannando.”
(6 dicembre 2010)
giovedì 2 dicembre 2010
Rompere il silenzio sul rapporto donne e politica.
La Società Italiana delle Storiche lancia un appello a tutte le donne e gli uomini di questo paese che avvertono la necessità di un immediato ritorno alla responsabilità della politica, per denunciare la quotidiana offesa alla dignità delle donne e alla loro presenza pubblica. Questa ha rappresentato e rappresenta infatti una delle più significative battaglie del mondo contemporaneo e la condizione perché le donne possano affermare una nuova visione della politica, frutto degli spazi che esse si sono faticosamente conquistate nella vita economica, sociale e culturale.
Giorno dopo giorno, l’immagine che ci viene rinviata dai media è invece essenzialmente quella di giovani donne disposte a tutto pur di calcare, in alternativa ai palcoscenici dei teatri di posa, le aule di consigli e parlamenti; di donne dal bel corpo pronte ad offrirlo ad affaristi e uomini politici di successo pur di garantirsi vantaggi diretti e indiretti: un incarico istituzionale, un ruolo di spicco in una società mista, un finanziamento in bilancio, un comma di legge utile. Il silenzio di ministre della Repubblica che tacciono su tutto questo è assordante.
Siamo ben coscienti che quell’immagine ritrae solo una scheggia della realtà, anche se ha dalla sua la forza di corpi che occupano ossessivamente le pagine dei periodici di successo e gli schermi delle trasmissioni più seguite. Ma è una raffigurazione che non rende giustizia alle migliaia di donne che si dedicano alla politica con passione e autorevolezza.
Denunciamo quindi il degrado dei metodi della politica, in particolare dei meccanismi di selezione della classe dirigente. Tuttavia non ci nascondiamo che nel costruire e alimentare questo stato di cose molte donne sono soggetti attivi e propulsivi, partecipi della stessa cultura di cui quel degrado è frutto ed espressione e dunque complici della costruzione di stereotipi pronti a ritorcersi contro tutte le donne che credono nella politica come luogo di progettazione e mutamento reale.
mercoledì 1 dicembre 2010
sesso e potere
Chi si ricorda più dello scambio sesso e potere?
di Lea Melandri
La“mercificazione del corpo femminile”, altra evidenza rimasta a lungo invisibile. Perché se ne parla solo ora? Ma, soprattutto, il modo con cui se ne parla ci aiuta effettivamente a portare fuori dal silenzio in cui è stata confinata la “naturalizzazione” del dominio maschile sulla vita intera della donna? La sua messa a tema dipende sicuramente da quanto detto sopra –doti estetiche, prestazioni sessuali compensate con denaro o cariche istituzionali-, ma anche dal fatto che, per quanto volutamente ignorata, esiste una cultura femminista che ne ha scritto e parlato a lungo. A ciò va aggiunto un cambiamento che riguarda invece la generalità delle donne e che può essere letto sotto il profilo di una, sia pur discutibile e contraddittoria, “emancipazione”: attributi tradizionali del femminile, come la seduzione e il materno, che escono dagli ambiti ristretti della casa e dei legami intimi per proporsi nello spazio pubblico nelle modalità richieste oggi dal mercato capitalistico. Le donne si fanno “soggetto”, prendono parola per denunciare le logiche di potere dentro le quali si sono collocate, ma non si sottraggono a nuove forme di “oggettivazione”. L’assunzione di un ruolo attivo nel decidere della propria vita impedisce di considerarle delle “vittime”, ma d’altro canto non può essere considerata “libertà” la scelta di vendere il proprio corpo o di mettere a profitto erotismo, sentimenti, affetti.
Il femminismo ragiona da anni sul rapporto sessualità e politica, su pratiche di liberazione e processi emancipatori legati agli sviluppi dell’economia e delle leggi, su autonomia e subalternità nella visione del mondo, ma inspiegabilmente è stato ignorato proprio quando avrebbe potuto dare un contributo essenziale di analisi. E la messa sotto silenzio purtroppo è stata anche l’effetto dell’eccessiva rilevanza che in alcuni casi le femministe stesse hanno dato alle “nuove figure femminili”, elogiate come espressione di “autorevolezza e libertà” per aver messo a nudo l’arroganza del potere. E’ come se tra il discorso dei media sulle donne, “sequestrato dall’immaginario berlusconiano” (Ida Dominijanni) e le donne reali “che non sono né veline né escort” non ci fosse che un vuoto, l’assenza di una storia che è venuta da decenni modificando la coscienza che le donne hanno di sé, spostando rapporti di potere e ripensando l’idea stessa di libertà, come ricerca di autonomia da modelli interiorizzati. E’da questo patrimonio di idee e di cambiamenti profondi del sapere di sé e del mondo che poteva venire un gesto di ribellione meno complice delle stesse logiche di sfruttamento che denuncia, una parola capace di riconoscere l’ambiguità di figure femminili tentate dall’illusione di capovolgere la schiavitù in dominio, la mancanza in risorsa. Solo la cultura prodotta dal movimento delle donne, in un paese dove il rapporto tra i sessi non è mai entrato tra le questioni essenziali della politica, poteva svincolare lo scambio sesso e denaro dall’eccezionalità di un potere personalizzato, assillato da un sogno di onnipotenza e da una patologica ossessione dell’ “eterno femminino”.
La denuncia che le donne fanno dell’uso che il potere fa dei loro corpi, dice Gad Lerner intervistato da “Leggendaria”, ha “effetti destabilizzanti”. Ma di quale potere stiamo parlando? Di quello che gode oggi in Italia del maggiore consenso politico, o di quello diffuso, trasversale a tutte le classi sociali, che considera il corpo femminile una proprietà “naturale”? Non sta forse in questo tratto comune del “potere virile” tradizionalmente inteso una delle ragioni che, al di là degli interessi e dei bisogni di singoli e classi, ha permesso finora al governo di Berlusconi di passare indenne da un terremoto all’altro?
Un altro pianeta da cui ricominciare.
Ridotto a una caricatura di se stesso, il potere maschile affonda nel fango ma non cede, perché una sotterranea e inconfessata alleanza di genere lo sostiene. A cosa attribuire altrimenti le invereconde recite che vediamo rappresentate sulla scena pubblica italiana? Cosa si giocano tra loro questi maschi che scivolano non sulle loro politiche razziste, autoritarie e classiste, ma su corpi di donne usati e violati? Riemerge con forza il vero punto di rottura continuamente negato, l’impari rapporto tra i sessi.
Vediamo corpi di donne mercificati al centro della scena mediatica e della pruderie nazionale, mentre nei fatti si continua a ostacolare “le” donne nel diritto e nella capacità di contare, puntando sull’invisibilità di tutte quelle che non stanno in vetrina, e anche sul disgusto che le tiene lontane dall’idea di competere per avere potere in questi termini e in questo contesto.
Che cosa occorre per raggiungere a ogni livello di responsabilità una significativa presenza di soggetti femminili, e di punti di vista femminili in grado di influire davvero sul farsi della società?
Dati i tempi, queste sembrano domande che riguardano un altro pianeta. E almeno ci fosse, un altro pianeta da cui ricominciare, come nei fantastici libri di Ursula Le Guin! Invece, già sta sbiadendo persino in alcune aree femministe l’idea che questa lotta sia ancora da fare. In fondo, ragionano alcune, è una questione che sta alle nostre spalle, la divisione di genere fra donne e uomini rischia di essere una riduttiva dicotomia, una stereotipata polarizzazione, una rigida categorizzazione quasi essenzialista.
Certo, le nette divisioni di campo corrono questi rischi, ed è vero che sta emergendo un altro profilo del concetto di genere, un profilo nomade, fluido, in mutamento, non più precisamente definibile… ma la storia ci dice che ogni lotta ha dovuto inevitabilmente attraversare una fase “identitaria” per definirsi e definire i propri obiettivi: “il punto di vista dell’altro collettivo e concreto”, come dice Nancy Fraser (i neri, le donne…), che partendo dalla parzialità offre una nuova visione dell’insieme.
A obiettivi raggiunti, si può ipotizzare che la dicotomia si sciolga e sia possibile uscire dalla soffocante gabbia “rivendicativa” per vivere nuove, trasversali relazioni e lavorare sui nodi sensibili della dinamica sociale, mettendo in campo la potenza creativa di tutte le soggettività finalmente liberate.
Ma gli obiettivi sono stati raggiunti? O perlomeno se ne vede vicina la realizzazione? Mi piacerebbe tanto condividere l’ottimismo di alcune, però quando guardo alla situazione generale in cui ci troviamo, sento brividi corrermi per la schiena.
Non per il silenzio “delle” donne – che inascoltate continuano a parlare nel deserto - ma per il silenzio “sulle” donne e su ciò per cui hanno lottato e lottano. Qualcuna dirà che però sono aumentate le donne a capo di alcuni vertici, e che comunque le donne sono ormai dappertutto, e che bisogna avere pazienza, perché la trasformazione è ormai avviata…
Sbaglierò io, ma a me sembra che abbia ripreso forza – questo sì, a ogni livello – una cupa rappresentanza maschile neopatriarcale – questa sì, essenzialista – che si dibatte in una rovinosa ma eterna agonia. Luoghi privati e pubblici guidati da un grigio “clero” uniforme, pur se su sponde apparentemente opposte (quante volte li vediamo riuniti in tv e sui giornali, le immagini parlano), secondo un modello ereditato appunto da quelle religioni che all’origine della storia hanno decretato l’espulsione delle donne dallo spazio sacro e profano.
Penso che abbiamo ancora molto lavoro da fare per conquistarci un altro pianeta dove il femminile abbia piena cittadinanza, e gli uomini siano riusciti a vincere la volontà di dominio e le pulsioni distruttive che li portano a usare violenza contro le donne. Eterna guerra sempre rinnovata, perché il numero dei femminicidi su questo pianeta non si ferma, e addirittura aumenta.
Se provo a chiedermi cosa occorra per modificare profondamente lo stato delle cose, m’immagino allora una grande, travolgente onda d’urto simile al disgelo dei ghiacciai in primavera. Nei fatti, una forte ripresa del movimento e del pensiero femminista di base, rielaborato e aggiornato, com’è giusto che sia, grazie ad alcune nuove intuizioni delle giovani generazioni. E, se possibile, in confronto dialettico con quei rari gruppi di uomini che da anni, sollecitati proprio dal femminismo, s’interrogano su un possibile altro modo di essere maschi, perché se loro non cambiano difficilmente cambieranno le cose.
di Floriana Lipparini
Maria Grazia Setzi
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